Il Sud di Marta Petrusewicz. Colloquio con una delle più importanti studiose del Meridione
Piergiorgio Garofalo
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Marta Petrusewicz è studiosa di storia economica e sociale delle periferie europee e di storia del Mezzogiorno d’Italia. Polacca di nascita, dopo essere stata costretta all’esilio dal suo paese a causa moti del 68, si è formata in Italia e negli Stati Uniti. Ha insegnato storia europea moderna e contemporanea alla City University of New York, Harvard e Princeton. Attualmente insegna storia moderna all’Unical e si può annoverare tra i più importanti studiosi della Questione Meridionale. Tra le sue pubblicazioni più importanti ricordiamo: “Il Sud: conoscere, capire e cambiare”, “Latifondo: economia morale e vita materiale in una periferia dell’Ottocento” e “Come il Meridione divenne una Questione”.
Professoressa Petrusewicz, nel corso della sua carriera ha avuto modo di studiare ed esplorare le problematiche di molte di quelle che sono considerate, quantomeno dal punto di vista geografico, Periferie europee. Alla luce delle sue ricerche e dei suoi studi, è possibile individuare delle assonanze o dei tratti ricorrenti di queste macro-aree con particolare riferimento al Mezzogiorno d’Italia? Io penso di si. Per riuscire in questa operazione è necessario però calarsi in una dimensione storica e, nello specifico, dobbiamo ricordare che sin dall’ottocento esistevano vari modelli di sviluppo tra i quali spiccavano quello inglese, a forte vocazione industriale, e quello più spiccatamente agricolo legato alla trasformazione delle materie prime, tipico appunto di queste aree considerate periferiche. Quest’ultimo non a caso dominava l’economia di aree quali il regno di Polonia nell’est, la Norvegia nel Nord, l’Irlanda dell’Ovest e, appunto, il Regno delle due Sicilie che, da questo punto di vista, non possiamo considerare arretrato in quanto, nonostante vi fossero molti segni di malessere sociale, comunque attraverso questo modello di sviluppo cercava di sfruttare le caratteristiche proprie del territorio. Nonostante però questo tipo di modello economico sfruttasse le attitudini territoriali, il Regno delle due Sicilie non riuscì a superare l’impostazione latifondista, da molti considerata uno dei più gravi problemi del Mezzogiorno, fino a quando non venne varata, utilizzando le risorse derivanti dal piano Marshall, la riforma agraria del 1950. Nel mio lavoro mi sono occupata a lungo delle problematiche legate al latifondo e alla sua presunta improduttività. Per questo dico che, al netto di giudizi, quello tra la struttura del latifondo con il territorio del Regno delle due Sicilie, era un rapporto che oggi possiamo considerare del tutto razionale. Questo è dovuto soprattutto alla sua capacità di riproduzione della sussistenza, attraverso la quale, i contadini, seppur pagati con salari bassissimi, si vedevano assegnati quegli appezzamenti di terra da coltivare e che gli consentivano di provvedere ai propri nuclei familiari. Attraverso questo meccanismo si manteneva una certa pace sociale e di conseguenza, la conservazione del sistema socio-economico del Regno stesso. Sul finire degli anni 90’, in particolare intorno a LIMES e MERIDIANA, si sono sviluppati una serie di studi e ricerche (di cui lei fu autorevole protagonista) che hanno definitivamente dimostrato la struttura composita e largamente costruita della Questione Meridionale. Parallelamente quindi, si diede avvio ad una stagione destrutturativa della stessa Questione, cercando di smontare quelle costruzioni e rappresentazioni (spesso decisamente stereotipate) che ne hanno segnato l’evoluzione nel dibattito pubblico e politico. Sullo sfondo di questa stagione vi era la speranza che il clima derivante dalla nuova era post-industriale segnata dall’informatica e dalla comunicazione di massa, potesse agevolare un simile processo e, dunque, rinsaldare la speranza per il Sud di trovare finalmente il suo posto, la sua autonomia intellettuale e politica rilanciando le sue reali esigenze ed istanze. Queste speranze sembrano però, oggi, essere state disattese. Cosa ne pensa? Penso che le cose siano andate esattamente così. Noi abbiamo sperato che decostruendo la Questione e dimostrando la grande complessità del mondo meridionale, si risvegliasse un dibattito nazionale e soprattutto internazionale, avente come interlocutore privilegiato la nascente Europa, con il fine ultimo di proporre una importante operazione culturale sul dibattito pubblico e politico. Questa operazione, anche a causa dei massimalismi di stampo neo-borbonico, è riuscita solo in parte, ma sono convinta che in futuro potrà (e dovrà) ripartire con successo maggiore. Oggi, l’argomento (onnicomprensivo) della Questione Meridionale sembra essere totalmente sparito dal dibattito politico nazionale. Questo è dovuto all’inadeguatezza della classe politica e dirigente oppure al fatto che, lentamente, è l’Italia intera che sta diventando sempre più periferia rispetto ai baricentri geopolitici ed economici Europei? Che giudizio da sull’azione per il Sud di questo governo? Questo è un governo molto particolare. Caratterizzato territorialmente nei suoi interpreti e nella sua struttura da una preponderante matrice tosco-emiliana. Gli accenti, le cadenze del Meridione sono quasi assenti o irrilevanti. Parallelamente, nel più ampio panorama politico e istituzionale, il Meridione è rappresentato da una classe dirigente nemmeno degna di questo nome. Eppure, in passato, siamo stati abituati a personaggi, seppur singoli, che perseguivano una visione di Mezzogiorno: penso a Mancini, penso a Gullo. Da tutto ciò non può che scaturire un quadro di sofferenza per le istanze del meridione. Il superamento di questa condizione potrà avere luogo solo nel caso in cui la scuola sarà messa in condizione di “reggere” e di formare, dunque, una nuova e qualitativamente migliore classe dirigente meridionale. E’ in questa direzione che il Paese intero deve convogliare le maggiore energie. Abbiamo visto come in passato le ricette che sono state applicate per “risollevare” il Sud si sono dimostrate spesso sbagliate. Dall’industrializzazione forzosa ai finanziamenti a pioggia improduttivi finanziati attraverso la Cassa per il Mezzogiorno. Nell’ultimo libro di Francesco Bevilacqua viene rievocato quel “pensiero meridiano” che invece, mettendo in discussione tutte le forme di eterodirezione ed eterosoluzione della questione meridionale, suggerisce di “pensare il Sud dal Sud” e puntare così sulle sue vere vocazioni, sui suoi veri potenziali di progresso. Cosa pensa a riguardo? Penso che l’approccio derivante dal pensiero meridiano, a cui hanno contribuito studiosi quali Cassano, Alcaro, Piperno e molti altri, faccia parte comunque del più ampio processo destrutturativo della stessa Questione e che, di conseguenza, sia l’unico modo di pensare il Mezzogiorno in maniera produttiva . Il pensiero meridiano fa parte dell’evoluzione del meridionalismo e facendo perno sullo sfruttamento delle vocazioni proprie del territorio meridionale, si contrappone all’antico “strappare i fiori dalle catene”, all’antico modo di fare apparire tutta l’amarezza, la crudezza e le piaghe della condizione meridionale, per risollevare la quale si guardava alle soluzioni tipiche dei modelli delle cosiddette società civili europee coeve come quella inglese e che, appunto, spesso sarebbero risultate inadatte alle specificità del mezzogiorno. Uno dei potenziali del Meridione è, senza dubbio, la cultura. Dalla Magna Grecia all’epoca romana, dall’era normanno-sveva agli splendori barocchi, il Meridione è disseminato di musei e siti archeologici e detiene retaggi culturali sterminati. Alla luce degli sviluppi degli studi revisionisti-destrutturativi e del pensiero meridiano, può essere davvero l’industria della cultura (combinata a turismo e agricoltura) la via su cui, oggi, si dovrebbe costruire un nuovo modello di sviluppo per il Mezzogiorno? Assolutamente si. L’Italia e soprattutto il Mezzogiorno soffrono di un difetto di amore verso loro stessi: un amore un po’ melenso, struggente, soffocato da emozioni spesso contrastanti. Oggi serve più che mai mettere da parte questo tipo di approccio e trasformarlo in conoscenza della propria terra, della propria storia e della propria cultura e delle proprie reali esigenze. Riuscire a vedere i quadri di Mattia Preti al museo di Taverna è quasi un impresa così come è un’impresa trovare di più di quelle poche decine di persone che conoscono e percorrono le vie delle nostre montagne, dei nostri boschi. Tutto ciò è incredibile, così come incredibile è Il fatto che un personaggio come Padula non rientri nei piani di studio o che comunque non venga approfondito nelle scuole pubbliche Calabresi. E’ fondamentale per il futuro del Meridione e della Calabria, tornare a conoscersi e tornare, di conseguenza, a conoscere le proprie vocazioni, in quanto, solo capendo e perseguendo queste ultime, potrà costruirsi una nuova speranza di futuro per il Sud. |
PUBBLICATO 15/09/2016 | © Riproduzione Riservata

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