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Ritornare a pensare Acri come bene comune

Domenico Terranova
Foto © Acri In Rete
Amo il mio paese, la mia cittadina; sono nato in Calabria, nella sila greca, ad Acri, ne vado orgoglioso e, nonostante tutto, continuo a vivere qui, così come fanno altri ragazzi. Nonostante gli ultimi decenni abbiano spopolato i nostri quartieri, nonostante le vie di comunicazione verso i centri più grossi siano rimaste quelle degli anni settanta, nonostante il degrado sociale e culturale che opprime la nazione si sia abbattuto anche tra la nostra gente, nonostante i continui “inviti” dei miei genitori a lasciare la mia terra in cerca di qualcosa di migliore da qualche altra parte..nonostante tutto qui ci sto bene, o ci sopravvivo, senza badare tanto a quel che c’è, ma immaginando quel che potrebbe esserci.
Odio il mio paese perché tende a piangersi addosso, perché non vede le potenzialità della sua gente e perché ha deciso di dimenticare il suo passato ed i suoi trascorsi di centro economico e soprattutto culturale dell’hinterland. Odio il mio paese perché ha smesso di ragionare come comunità, perché non si difende più il bene comune e l’idea di perseguire un benessere diffuso ha ceduto il passo all’opprimente rincorsa verso l’insaziabile egoismo dell’io a discapito degli altri.
Eppure si potrebbe fare tanto e si potrebbe fare bene perché il mio amato-odiato paese ha tanto da offrire, non solo a livello paesaggistico, ma soprattutto a livello umano. Le capacità sono diffuse, ma manca la meritocrazia; le idee non vengono valorizzate e supportate perché spesso la testa che le ha partorite non appartiene alla schiera degli amici dei governanti di turno; si decide sempre di seguire strade già percorse da altri con risultati imbarazzanti perché non si ha il coraggio o la capacità di guardare oltre il domani, di scommettere sul futuro, e non si ha l’umiltà di confrontarsi con gli altri, con tutti gli altri, che essi siano professori o analfabeti che semplicemente vogliono contribuire a migliorare la propria terra.
Nessuno può esimersi dal fare un mea culpa per il lento e amaro destino che ci stiamo costruendo giorno dopo giorno, è inutile additarsi l’un l’altro cercando l’unico e spietato colpevole di tutto ciò. Certo è facile dare la colpa solo ai governanti di turno o a quelli precedenti, ed è anche giusto criticare un amministratore se non riesce a svolgere dignitosamente il ruolo per il quale è stato eletto. Ma credo sia questo il nocciolo del discorso, l’amministratore è stato ELETTO, quindi rappresenta a pieno il proprio elettorato e se governa vuol dire che la maggioranza dei cittadini, che liberamente si è recata alle urne, si riconosce e quindi si affida al suddetto. Domanda: chi è la vittima e chi il carnefice?
Risposta: La comunità sceglie i propri rappresentanti, li elegge e, troppo spesso, se ne lamenta il giorno dopo, salvo poi correre a votarli nuovamente nella tornata successiva; perché “è della famiglia”, perché “è furbo o ricco”, perché “è un professionista e può sempre servire”, perché “tanto sono tutti uguali, l’importante è che riesce a farmi passare quella pratica”, perché “vuoi mettere uno che fa politica da 20anni con un ragazzetto che parla di energie rinnovabili e non riesce nemmeno a farti una raccomandazione per un palo della luce”... ecc, ecc.
Certo sarebbe estremamente semplice e banale fare di tutta l’erba un fascio, si rischia di fare del populismo a basso costo e ce n’è già tanto in giro, troppo; ma non sono nemmeno così presuntuoso da dar pagelle, anche perché credo che chiunque abbia amministrato o amministri conosca perfettamente il proprio operato. Il problema sta nel fatto che la mia generazione ha bisogno di ESEMPI da seguire, e il panorama politico, e non solo, ne offre ben pochi; ha bisogno di poter scegliere di tornare o restare nella propria terra sentendosi realizzata indipendentemente dalla famiglia di provenienza, e questo diventa sempre più difficile; ha bisogno di potersi sentire parte attiva di un progetto per riuscire a dare il meglio di se, per potersi mettere alla prova, per poter contribuire attivamente alla ripresa della nostra cittadina ed invece viene tenuta ai margini o si cerca di “addomesticarla”.
Queste quattro righe non hanno pretese, semplicemente sentivo il bisogno di dire la mia, in quanto cittadino, vista la situazione che siamo costretti a vivere, perché siamo in pieno agosto e le strade del nostro paese sono semivuote; perché non riusciamo a creare ricchezza, ne ad attrarne, e sono sempre di più quelli che vanno via e sempre meno quelli che tornano; perché non riusciamo a difendere nemmeno quel poco che abbiamo e il ridimensionamento dell’ospedale ne è un tragico esempio che aggrava di tanto la già precaria vitalità del nostro comune. Come cittadino acrese mi sono sentito tradito da chi aveva l’obbligo morale e istituzionale di difendere il nostro diritto alla salute con ogni mezzo e ad ogni costo. Come membro del comitato a difesa dell’ospedale mi sono sentito tradito dai tanti che hanno deciso di far finta di nulla, di guardare dall’altra parte con indifferenza, come se non fosse anche un problema loro.
Abbiamo perso l’orgoglio e la sana testardaggine che hanno sempre caratterizzato gli acresi, ci dividiamo su tutto e troppo spesso viviamo la politica come tifosi e non come cittadini.
Bisogna al più presto invertire la tendenza, ritornare a pensare come una comunità, ritornare a difendere il bene comune.
Basta personalismi, familismi, clientele; basta con le promesse da campagna elettorale mai mantenute, con le “grandi opere” mai terminate e con le “minestre riscaldate”.
Forse basterebbe un po’ di buonsenso, un po’ di serietà e un po’ di attaccamento alla propria terra ed alla propria gente…da parte di tutti.

PUBBLICATO 09/08/2012

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