Riflettere sul passato fa bene al cuore e alla ragione
Fra Piero Sirianni
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Sulla facciata del Teatro Massimo di Palermo leggiamo l’epigrafe: «l’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. / Vano delle scene il diletto, ove non miri a preparar l’avvenire».
La scrittura è una forma d’arte; lavorare sulla storia passata è fondare le basi per il futuro. Il corposo volume che abbiamo tra le mani, “Gli emigrati acresi nelle Americhe e la Grande Guerra”, dello stimato prof. Giuseppe Scaramuzzo – “eterno studente” – è: - un tributo ai nostri avi, gli uomini che hanno costruito la storia, difeso la libertà, testimoniato i valori, obbedito allo Stato; - una pagina “bella” e importante sul Meridione d’Italia, la cui storia narrata è spesso, intrisa di criminalità e malaffare, ritenuta da oscurare – pagina buia della Penisola; - un testo costituito da ricerca archivistica, ricostruzioni storiche, ascolto di testimonianze; - una pesante eredità consegnata ai posteri, siano essi studiosi e appassionati oppure semplicemente le giovani generazioni. Proprio per l’uomo, il cittadino del domani voglio spendere tempo e fatica sopra queste pagine, “averne cura”, appassionarmi a ciò che mi dicono. Affinché, di fronte a tutto quello che oggi definiamo post-umanesimo e trans-umanesimo, nichilismo e indifferenza, iper-connessione e fuga dalle decisioni definitive, io – lettore – possa gridare al mondo: «Generativi di tutto il mondo unitevi!» (M. Magatti-C. Giaccardi). Perché l’impegno testimoniato da questo libro e dal suo autore è una forma di incarnazione della generatività: quella ferma decisione umana ed etica che dice di intraprendere strade nuove, alternative; che invita a “gettare le reti” (cfr. Gv 21,6), nonostante il diffuso e contagioso scoraggiamento; per collaborare alla costruzione di un nuovo umanesimo. Esso passa da questi fatti narrati e dalla loro conoscenza. Inevitabilmente. Perché siamo figli della nostra storia (locale e globale); perché siamo chiamati a non ripetere errori; perché vogliamo gettare le basi di un mondo più equo e fraterno. Riflettere sul passato fa bene al cuore e alla ragione; mi fa toccare con mano le sofferenze dei nostri nonni: costretti a lasciare la propria Terra in cerca del pane quotidiano; chiamati a incontrare il rifiuto di un Paese lontano e per molti versi straniero; interpellati dai doveri dello Stato; gettati nell’assurdità di un conflitto e di tutte le sue atroci conseguenze. Mi fa scoprire il ricco poliedro dell’animo umano: fatto di gioia, paura, angoscia, ira, orgoglio, gratuità, donazione, sacrificio. Mi fa guardare con occhi diversi alla città di Acri – non a quella di oggi, depressa e povera; ma al paese protagonista che donò illustri figli alla storia nazionale. Queste pagine ne riportano tanti. Coraggiosi e umili; intraprendenti e infaticabili. Uomini che lottano, ma piangono per la forzata partenza: «partenza e morti su’ tra ’na vilanza / tra l’una e l’autra nun c’è differenza. Chi dici ca la morti supravanza / ma iu dicu ch’è cchiù brutta la partenza» (p. 47); e a causa della lontananza: «sugnu luntana e tia, luntanu sugnu, / Senz’arma, senza cori e senza jatu. / ‘Un sacciu cumu campu e vivu sugnu / Cussì luntanu e tia, miu beni amatu!» (p. 50). Il lettore – l’acrese in particolare – è invitato a prendere coscienza di quello che è stato; per leggere meglio e con più profondità il presente: ancora oggi in tanti emigrano, si combattono, muoiono, sperano in un domani migliore e più umano. Aiutiamoci a diventare più uomini e solidali. Ringraziamo il professore Scaramuzzo e auguriamogli di offrirci al più presto un ulteriore contributo, con la stessa passione che lo contraddistingue. |
PUBBLICATO 08/01/2019
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