Quando la modernità recide le radici. Riflessioni su una società in deriva
Giuseppe Gencarelli
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Vi è mai capitato di sentir dire che la nostra società stia andando alla deriva? Che i giovani sembrino privi di una direzione chiara, sempre più distanti dal senso civico, dalle buone maniere, dal rispetto reciproco? O che la famiglia non rappresenti più quel luogo di crescita e trasmissione valoriale che un tempo costituiva il cuore pulsante della nostra identità? Sono osservazioni che ormai risuonano spesso, quasi quotidianamente. Se proviamo a cercare una spiegazione convincente a questo cambiamento, tra le molte ragioni possibili ce n’è una che appare più profonda e decisiva di tutte. La perdita della nostra storia, delle nostre tradizioni, della nostra cultura. In altre parole: la perdita di ciò che siamo stati e che per generazioni ha definito ciò che siamo.
Un tempo questi valori venivano custoditi e trasmessi con naturalezza dalla famiglia, dai genitori, dai nonni. La memoria viveva nei racconti, nei gesti, nei riti quotidiani. Era una cultura incarnata, vissuta, non solo studiata. Oggi, invece, sembra affermarsi una visione della modernità secondo cui tutto deve cambiare rapidamente, spesso senza guardare alle fondamenta. Ci viene detto che un cittadino “evoluto” deve abbracciare un progresso continuo. In questo processo però rischiamo di recidere le radici che ci hanno sempre dato stabilità, identità e senso di appartenenza. E allora la domanda sorge spontanea: siamo davvero certi che questo progresso ci stia facendo bene?
Abbiamo ottenuto comodità straordinarie, smartphone potentissimi, macchine sempre più sofisticate, abiti e tecnologie di ogni tipo, ma non rischiamo di aver sacrificato qualcosa di più importante? Il prezzo della modernità non sarà forse stato la rinuncia ai valori, all’educazione, al senso civico, alla gentilezza, alla capacità di pensare non solo a sé stessi ma soprattutto alla comunità? È qui che torna attuale, e forse meno romantica di quanto sembri, la famosa frase “Si stava meglio quando si stava peggio”, non perché la vita fosse più facile, ma perché era più umana. Le persone riuscivano a essere felici con molto meno perché avevano molto di più nelle relazioni, più fiducia, più rispetto, più solidarietà. Ci si aiutava senza calcolo, anche tra estranei. Le feste nascevano dal desiderio di stare insieme e con quel poco che si aveva si costruivano momenti indimenticabili. I bambini giocavano con una pietra, un gessetto, un cortile. Non mancava nulla! La fantasia e lo stare insieme erano già tutto. All’epoca esistevano rispetto, gentilezza, ospitalità, senso dell’onore. Una stretta di mano valeva quanto, se non più, di un contratto notarile. Oggi, paradossalmente, persino un documento firmato non garantisce la stessa affidabilità di un impegno preso verbalmente qualche decennio fa. Quindi bisogna chiedersi se la radice del problema fosse davvero la perdita della nostra identità culturale. Quando si smette di conoscere la propria storia, quando non si coltivano più le tradizioni, quando si abbandonano i rituali che ci definivano come comunità, si perde inevitabilmente il senso di chi siamo e, senza sapere chi siamo stati, diventa impossibile capire chi dovremmo davvero essere. Abbiamo perso quei valori che ci hanno permesso di costruire una società coesa, abbiamo smarrito quella sana “vergogna” che un tempo regolava i comportamenti e impediva di oltrepassare certi limiti, abbiamo rinunciato a un patrimonio culturale che non era fatto solo di usanze, ma di umanità condivisa. Forse, allora, il vero progresso non consiste nell’avere sempre di più ma nel non perdere ciò che conta davvero. Eppure, nonostante questo cambiamento profondo, ad Acri una parte di quei valori esiste ancora, forte e riconoscibile. Basta osservare la vita quotidiana nei quartieri, nelle frazioni, nei bar del paese dove ci si saluta ancora per nome, dove un anziano non resta mai solo e dove il senso di comunità è più di una parola: è un’abitudine radicata. Ad Acri resiste quella gentilezza spontanea fatta di piccoli gesti, la disponibilità ad aiutarsi senza chiedere nulla in cambio, il rispetto per le tradizioni popolari che continuano a unire le persone più di quanto si pensi. È un patrimonio umano prezioso, spesso silenzioso, ma ancora vivo: una ricchezza reale da cui ripartire per ricostruire ciò che altrove rischia di andare perduto. Il futuro potrà essere migliore solo se avremo il coraggio di tornare a guardare indietro, non per nostalgia sterile, ma per riconoscere nelle nostre radici la bussola che può guidarci nell’avvenire. Senza memoria non c’è identità, senza identità nessuna società può dirsi davvero viva. Dott. Giuseppe Gencarelli, Psicologo/Psicoterapeuta
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PUBBLICATO 09/12/2025 | © Riproduzione Riservata

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