Pubblicato il saggio "La Calabria cosentina e la Grande guerra attraverso l’osservatorio di un paese: Acri"


Giuseppe Scaramuzzo

Gentilissimo Direttore,
già nel 2015, in occasione del Centenario della Grande Guerra, con amarezza, ho dovuto constatare come le istituzioni politiche e culturali, le scuole di ogni ordine e grado e gli organi d’informazione non abbiano ritenuto opportuno dedicare lo spazio e l’impegno dovuto per ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, il drammatico evento della Prima guerra mondiale, a cui Acri ha dato un rilevante contributo in termini di numero di combattenti, morti, prigionieri e reduci invalidi. L’Istituto Campano, a cui sono grato, ha voluto inserire nella sua rivista “Meridione. Sud e Nord nel Mondo” il mio saggio “ La Calabria cosentina e la Grande guerra attraverso l’osservatorio di un paese: Acri ”, che sintetizza il risultato delle mie ricerche confluite nel volume “Storia di gente comune. I sodati acresi nelle guerre del Novecento” . Nell’occasione, allego una breve sintesi quale atto di stima dovuto nei confronti di tutti i nostri concittadini, che furono protagonisti di una tra le più rilevanti tragedie del secolo scorso. La Calabria cosentina e la “Grande guerra” attraverso l’osservatorio di un paese:Acri . Con l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, venivano chiamati alle armi, per mobilitazione generale, 2.435 giovani acresi pari a circa il 18% di una popolazione di 13.306 abitanti. Di questi, circa 1000, non essendosi presentati “alla visita di leva” , verranno ritenuti disertori, nonostante fossero da tempo emigrati nelle lontane Americhe. Il fatto che molti accusassero malattie o infermità presunte per non andare in guerra (secondo il detto popolare “fa lu sturdutu pe u’ jiri alla guerra” ovvero fa il rimbambito per non andare in guerra) spingeva i medici militari ad arruolare indistintamente tutti con molta leggerezza al punto di arrivare a dichiarare “abili arruolati” ben 18 giovani ammalati gravi. In paese, dello scoppio della guerra avevano avuto notizia e con ritardo solo i notabili e qualche intellettuale ovvero i pochi che potevano leggere le scarse copie di giornali che arrivavano. Invece, i giovani acresi appresero che l’Italia era entrata in guerra solo quando cominciarono ad arrivare le prime cartoline precetto con l’obbligo di recarsi ai vicini Distretti militari di Cosenza o di Castrovillari. La maggioranza dei chiamati alle armi era costituita da contadini. Quasi tutti erano analfabeti; solo 240 sapevano leggere e scrivere, mentre solo 36 erano studenti o laureati. La chiamata in guerra fu subito avvertita come una sciagura da affrontare con atavica rassegnazione. In gran parte andavano in guerra senza capirne le ragioni; per loro, le parole “Patria” “Stato” “Governo” erano terminiincomprensibili. Appena arrivati nei reggimenti loro assegnati, dopo meno di un mese di istruzione militare in cui erano costretti ad imparare rapidamente l’uso delle armi,venivano inviati al fronte. Non si lamentavano del rancio scarso e scadente né del freddo gelido e dell’inadeguato vestiario militare, essendo da sempre malnutriti e malvestiti; orgogliosi e abituati al sacrificio, quasi mai si sottraevano alle imprese pericolose, come viene ampiamente testimoniato dalle numerose medaglie al valor militare e croci al merito di guerra loro assegnate. Una particolarità che va sottolineata è data dalla presenza di acresi su tutti i fronti del conflitto e in tutti gli eventi più tragici della guerra con un alto numero di morti, prigionieri, feriti, invalidi e mutilati. Alcuni dei superstiti, terrorizzati dalle artiglierie nemiche e dai gas asfissianti, tormentati da topi e pidocchi nelle trincee, venivano colpiti da trauma diagnosticato come “astenia nervosa”. Merita anche di essere sottolineato che nella Brigata “Catanzaro”, famosa per essersi ammutinata il 13 luglio 1917, erano presenti ben 8 soldati acresi. Molti combattenti acresi venivano impegnati da un eventuale attacco dell’Impero Turco in difesa della Tripolitania e Cirenaica e delle isole del Dodecaneso (Rodi) ; altri venivano inviati in Albania, a Valona, oltre a quelli inseriti nel 4° e nel 20° Reggimento Fanteria mandati in aiuto della Francia tra il 1916 e il 1918. Una gran parte veniva impegnata su tutto il fronte italiano, lungo circa 700 chilometri, ma in particolare in Trentino, dove la guerra si svolse in alta montagna in condizioni difficilissime per mancanza di rifugi adeguati e di idonei indumenti di lana. Altra particolarità è costituita dal fatto che soldati acresi compaiono negli elenchi di tutti i reati di cui si rendevano colpevoli i combattenti ribelli, messi a dura prova dai disagi della guerra e perciò, pur condannati a svariati anni di carcere da scontare a guerra conclusa, furono poi tutti ammessi all’amnistia concessa col R.D. del 2 settembre 1919. Ma, tranne alcuni casi isolati di soldati renitenti, disertori, autolesionisti o che si erano macchiati di gravi reati, non pochi furono quelli che si comportarono valorosamente. Infatti, ben 25 combattenti meritavano la croce di guerra al valor militare. Venivano poi decorati , per aver compiuto atti di eroismo, altri 17 soldati, di cui 5 con medaglia d’argento; 18 con medaglia di bronzo e uno con medaglia di bronzo al valor civile. A tutti i combattenti, a guerra conclusa, oltre alla dichiarazione di “aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore”, veniva pagato il “pacco vestiario” di £80 e liquidato il premio “di congedamento” che oscillava tra le £ 200 e £ 300. Gli acresi a cui furono riconosciuti i gradi superiori furono ben 51, tra cui 1 Capitano; 1 Aiutante di battaglia, 10 sottotenenti; 4 allievi sottufficiali; 1 tenente, 10 sergenti; 7 caporalmaggiori; 17 caporali. Alla fine della guerra, il tributo pagato da Acri in termini di morti, prigionieri, feriti e invalidi risulta molto alto, come si riassume nell seguente schema:
Gli anni della guerra resero le condizioni di vita ancora più drammatiche nella comunità acrese, privata delle forze sane e produttive, essendo partiti al fronte ben 1.698 uomini, di età compresa tra i 18 e i 40 anni. Le botteghe degli artigiani erano state quasi tutte chiuse; rimanevano aperte solo quelle gestite dagli anziani. I campi o rimanevano abbandonati o venivano a stento coltivati dai vecchi e dalle donne , che, con l’aiuto anche dei bambini, riuscivano a produrre il minimo per il sostentamento della famiglia. Spariti quasi del tutto i generi di prima necessità come pane, pasta, riso, zucchero, latte, la fame si mostrava in tutta la sua evidenza con i mendicanti sempre più numerosi nelle vie del paese, e le schiere di donne che si recavano nelle periferie a raccogliere verdure selvatiche, che, bollite, a volte senz’olio, costituivano il pasto quotidiano dell’intero nucleo familiare. Interessanti e spesso commoventi sono le lettere che i soldati, dopo lunghi intervalli, riuscivano ad inviare ai loro cari dai luoghi più sperduti del fronte di combattimento, come quelle dell’illustre nostro concittadino, il tenente Saverio Spezzano, che diede voce anche alle sofferenze di tanti commilitoni analfabeti con cui condivideva il trauma del dover assistere e al tempo stesso sfuggire alla morte e alle malattie che si contraevano nelle trincee. |
PUBBLICATO 23/11/2016 | © Riproduzione Riservata

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