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La nascita di un figli o una figlia disabile

Foto © Acri In Rete
Valentino Coschignano
L'esperienza di avere un figlio è già di per sé un elemento che altera gli equilibri presenti in una coppia e in una famiglia. Alla sua nascita sono connesse profonde aspettative di gratificazione personale e sociale. Un figlio costituisce per il genitore l’ideale prolungamento di sé e di proiezione futura. Di solito, un figlio disabile non è una scelta. E uno stato che si impone e si accetta nella consapevolezza di essere impreparati e incapaci di fronte alla responsabilità e ai problemi. Alle incognite degli avvenimenti e del futuro. Figlio disabile che cambia la circostanza della nascita da momento di letizia e di felicità a momento angosciante e luttuoso. Realtà destabilizzante sin dall'inizio e a cui è difficile abituarsi. Un enigma che pone domande sulle cause e sulle responsabilità. “Da dove viene questo bambino che non ci rassomiglia? Perché è successo? Perché è successo a me?” Si cerca anzitutto una definizione patologica per capire questa insostenibile realtà, ma anche quando viene acquisita la spiegazione sugli agenti e sulle cause, questa non allevia un oscuro sentimento di disperazione, implacabile e irrazionale. Uno dei principali elementi di trauma che condiziona i comportamenti futuri dei genitori è costituito dalle modalità con le quali questi vengono informati e prendono conoscenza della disabilità del figlio.
La scoperta può essere immediata o tardiva, ma quasi sempre avviene nella solitudine e nell’isolamento dei genitori, senza un appoggio medico-psico-sociale tale da definire certezze o ipotesi ragionevoli sui deficit del figlio e sulle possibilità di recupero. Accade anzi che in questa circostanza le comunicazioni dei medici rafforzino í sentimenti dì inquietudine, di incertezza e di colpevolezza inconscia: «Non ci si può ancora pronunciare, non sarà mai normale, ne faccia un altro, lo metta in istituto». Tutto questo costituisce un atto formale di rifiuto che compromette ogni percezione realistica e alimenta ansie depressive o persecutorie. La carenza e la distorsione delle notizie rendono difficile soprattutto l’intervento attivo dei familiari nel processo di riabilitazione. I genitori si trovano abbandonati in una ricerca confusa di soluzioni improprie (consulti, centri di cura esteri, guaritori, terapie esoteriche) il cui fallimento costituirà una permanente diffidenza per gli ulteriori interventi educativi, riabilitativi e di socializzazione nei confronti del figlio.
Dopo lo choc iniziale la presenza del bambino disabile produce una ristrutturazione delle relazioni familiari. La madre assume l’impegno assistenziale in senso totale e talvolta ossessivo (la rinuncia al lavoro è costante). Finché il bambino è piccolo, le attività di cura sono vissute come reali e normali, in seguito interviene una presa di coscienza di anomalie fisiche, psichiche e comportamentali, per cui i bisogni del figlio diventano l’esteriorizzazione del suo stato patologico e quindi di una situazione fortemente negativa: allo sviluppo fisico non segue quello della personalità e dell’autonomia. Questa constatazione rafforza e prolunga la fase della dipendenza del figlio anche oltre i suoi bisogni oggettivi. Il comportamento del padre oscilla fra tentativi di “fuga” (soprattutto attraverso la ricerca di gratificazione professionali), atteggiamenti di “rivendicazione” sociale o culturale o posizioni di passività e di distacco (“padre assente”).
Le comunicazioni fra i genitori sono soprattutto centrate sui problemi della disabilità e si determina un’attenuazione o rimozione dell’affettività e della sessualità nella coppia. Per quanto riguarda la presenza di un fratello/sorella, se è nato prima di quello con disabilità gli viene sottratta gran parte dell’attenzione e gli si impone di responsabilizzarsi, se è nato dopo deve riparare la ferita narcisistica che hanno subito i genitori e prepararsi a sostituirli nei compiti di custodia e di assistenza. La relazione dei genitori con il figlio disabile è caratterizzata, generalmente, da atteggiamenti di iperprotezione che ne impediscono lo sviluppo della personalità, e delle capacità residue. Talvolta si verificano invece fasi di ipervalutazione delle possibilità del figlio: «Lui è intelligentissimo, potrebbe fare l'università, sono g1i altri che non lo capiscono e lo rifiutano». Per i genitori vi è non soltanto l’impossibilità di realizzare una maternità o una paternità normale, ma anche, per le disfunzioni del sistema dei servizi (socio-sanitario, socio-educativi, socio-assistenziali e socio-culturali) di attuare un progetto organico, guidato e razionale di inclusione sociale. La famiglia, abbandonata a se stessa, deve dare una risposta alla nascita e alla crescita del figlio disabile e ogni componente deve continuamente ridefinire la propria posizione rispetto ai problemi che progressivamente suscita il figlio diverso.
E' importantissimo che la famiglia della persona con disabilità ritrovi e viva la sua “normalità”. Ciò è possibile soltanto con una buona organizzazione e il coordinamento di tutte le risorse: interne ed esterne alla famiglia. Solo cosi è pensabile recuperare un piccolo spazio individuale per ciascuno: un piccolo spazio per la coppia coniugale che non può annullarsi nell’unico ruolo genitoriale, un piccolo spazio per gli altri figli che attendono pazienti.

PUBBLICATO 12/02/2015





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