OPINIONE Letto 1648

Manganelli e Polizia violenta svuotano la Democrazia, la Repressione del Dissenso Uccide la Libertà


Foto © Acri In Rete



Quando le manifestazioni sono pacifiche anche se si esprime dissenso NON si manganellano gli studenti per impedirgli di manifestare, se accade è già asfissia illiberale.
La libertà è la cifra distintiva dell’umanità al punto che dovrebbe riuscirci difficile concepire una  qualsiasi idea di essere umano, senza che la libertà gli sia riconosciuta anche nella modalità dell’agire, o secondo la libertà del volere formarsi i propri desideri e le proprie convinzioni.
Nelle civili democrazie, tra le innumerevoli forme di libertà manifestate nella sfera pubblica, quella politica, ne implica e contiene molteplici, uno su tutti il diritto inalienabile a manifestare o dissentire.
Non c’è libertà in un mondo costituito dalla necessità in cui tutto, specie le scelte individuali ma ancor più quelle collettive, sono rette e gestite dal rigore del determinismo casuale.
Non c’è libertà se l’essere umano è costretto con la forza fisica, con le minacce le intimidazioni o qualsiasi altra forma di violenza coercitiva, ad agire nel modo in cui non vorrebbe agire, ma è costretto ad agire.
La libertà dunque diventa il presupposto mediante il quale attribuiamo responsabilità agli individui, snodo teorico ineludibile della filosofia, per le sue ricadute sul piano dell’etica, del diritto e soprattutto della politica.
In quanto tale è evidente che la libertà resta un termine tra i più controversi ed ambigui, poiché manifesta notevoli nodi su quali s’incagliano i temi e le questioni che la filosofia ha sempre in animo di valutare e proporre; specie in un tempo in cui comprendere il reale come razionale, diventa certamente uno dei suoi compiti più impegnativi; mentre il compito della Storia hegelianamente compiuto resta pur sempre quello di concretizzare la Ragione.
Ma in questo tempo della Storia, sciagurato e confuso, che sta smarrendo o forse ha già smarrito il valore fondante delle libertà come assenza di costrizione e affermazione di necessità, ogni pretesto dovrebbe essere quello giusto per incominciare o continuare a riflettere sulle Libertà, i diritti, ma soprattutto sulle relazioni sociali tra individui e le complesse specificità, quelle che riguardano tutte le forme dell’esercizio consapevole e dignitoso delle libertà, assunte come valori assoluti.
Perci , se la libertà è uno dei valori principali, più rilevanti e caratteristici della storia e della cultura occidentale, che orienta l’agire morale, etico, politico, costruendo partiti, promuovendo campagne elettorali, operando rivoluzioni e progresso; giustificando anche battaglie e non poche guerre; ed è sempre in grado di manifestare eretici, dissidenti e non già qualche individuo cosmico storico come eroe che tenta di realizzare il disegno della ragione universale; allora va da sé che siamo tutti chiamati - nessuno escluso -  ad interrogarci sul valore sostanziale della libertà e dei diritti.
Non è certo la diversità semantica del significato di lotta per la libertà di cose diverse, che ne affievolisce il valore estrinseco. La Libertà pu  e deve essere descritta, valutata, e giudicata sempre come fatto e quindi precisamente come valore.
Allora chiedo: che bisogno c’era venerdì a Pisa di pestare a sangue dei minorenni durante le manifestazioni pro Palestina? Tanto che finanche il presidente della Repubblica ha sentito il bisogno di intervenire con una nota.
Dopo le botte da orbi del 2001 alla Diaz, la gestione criminogena dalla trimurti Berlusconi-FiniBossi al G8 di Genova, l’uccisione di Carlo Giuliani, con gli sgherri di Alleanza Nazionale nella sala operativa della Questura, e tutta la macelleria messicana alla Diaz e a Bolzaneto, in cui fu scritta una pagina scandalosa della storia repubblicana italiana. Venerdì scorso ancora una volta, le Forze dell’Ordine ci ricascano, misurano la forza e non l’autorevolezza, lo fanno col peso dei manganelli, con l’odore del sangue del pestaggio e non sulla capacità di procurare sicurezza e assenza di pericolo nel garantire il libero esercizio a manifestare, senza inutili e dannosi ghirigori dei muscoli.
Quindi ritorna ancora una volta quell’oscuro senso d’insicurezza e paura, ricavato dalla compressione di un diritto, quello di aver impedito ad un manipolo di studenti di manifestare liberamente il loro pensiero pacifista; se non col pericolo alla sicurezza fisica dei manifestanti. Tratto che riconosciamo come distintivo dei soli regimi autoritari e dell’autoritarismo. Dalla Russia all’Afganistan, dall’Iran a certi regimi islamici fino ai paesi golpisti del sud America, anche in Italia quella compressione illiberale ha preso forma.
Si ripete, c’è stata e torna ad essere realtà la cappa soffocante dell’illiberalità, in un paese per troppi versi ancora  fascistissimo, un paese che in fondo non ha mai saldato del tutto i propri conti storici con quella sua storia oscura e cupa. Tanto che è facile l’associazione di idee del come rintracciare nelle ultime scene di violenza agite sugli studenti toscani, le stesse identiche modalità passate per la storia.
Dov’è finita venerdì la tutela alla libertà di manifestare in piazza le libere opinioni, sia pure con una manifestazione non comunicata alle autorità?
Anche perché recentemente pronunciare parole come Pace, Genocidio o Massacri è diventato impopolare e rischioso, visto che spinge ad evocare altre  indegni rigurgiti ideologici, ancora più malsani e puzzolenti.
Allora eccoli i giuristi, filosofi, storici, e intellettuali dalle teste pensanti di questo strano paese intervenire opportunamente; e il silenzio assordante o dissonante della politica e soprattutto della presidente del consiglio che inopportunamente preferisce tacere sulla gravità di tali fatti. Che strano paese.
 Zagrebeslsky continuamente ci ricorda che l’articolo 17 della Costituzione italiana vuole tutti i cittadini italiani titolari del diritto costituzionale a riunirsi a condizione che la riunione sia pacifica e senza armi.
Infatti, solo sotto il fascismo occorreva l’autorizzazione dell’autorità pubblica, con il bene placito concesso dalle autorità di governo.Abbiamo infatti una Costituzione che non richiede alcuna autorizzazione di riunioni in luoghi pubblici”bensì un semplice preavviso alle autorità, che non è mai ed in alcun modo una richiesta di autorizzazione.
Dunque anche in punta di diritto, i comprovati motivi di sicurezza o l’incolumità pubblica che giustificherebbero dal punto di vista delle forze dell’ordine, quel preavviso mancato e tanto acclamato per quei fatti, risultano stomachevolmente infondati e consistentemente ingiustificati, nell’orribile circostanza in cui ancora una volta le botte da orbi avevamo proprio creduto di non doverle più rivedere, ancor più sugli studenti.
Nell’incontrovertibile distanza tra autorità e autorevolezza, tra libertà e responsabilità  in entrambi casi siamo siamo certi di voler ricondurre i fatti ad una questione di libertà di pensiero, di libertà di diritto a manifestare soprattutto il dissenso, nell’esercizio pacifico, anche a voler essere privi di formale “autorizzazione”.
Studenti percepiti come temibili provocatori, e non come predicati speculari di un diritto di parola, del senso morale nell’assiologia della libertà, come vera sostanziale vocazione alla libertà che la giovinezza acclama e rivendica tutta per sé.
È noto che responsabilità morale e giuridica sovente non è perfettamente coincidente, così come possono risultare divergenti  sfera morale e sfera del diritto, malgrado sovrapposizioni ed elementi comuni. In entrambi i casi per  morale e diritto rimandano sempre agli obblighi, che evocano sempre piuttosto agevolmente giocoforza con le prescrizioni.
Stavolta il riferimento punta ancor più al riconoscimento dei diritti che la libertà determina, e vale doppio, proprio perché sono studenti, a cui insegniamo cos’è il diritto alla libertà di pensiero, d’espressione, l’esercizio al dissenso e alla libertà sociale oltre che politica e religiosa.  A questi stessi studenti spieghiamo la Storia e la Filosofia, oltre che l’educazione Civica trasversale a numerose altre discipline, per convincerli che libertà e diritti rappresentano i pilastri attorno ai quali, dentro e fuori la scuola, devono riuscire a individuare e applicare le regole della convivenza sociale in un democratico concitarsi dalle inferenze etico-politiche, che passa sempre per l’affermazione delle libertà costituzionali.
Dunque come docenti, come genitori e comunità educante dobbiamo continuare a spiegare a questi e a tutti gli studenti, anche a quei pochi più distratti e insensibili del nostro paese, che la
Libertà deve illimitatamente continuare ad essere assunta come valore unico e prioritario, e che deve poter continuare ad essere coniugata ai migliori valori democratici sostanziali oltre che al buon senso comune; per saper orientare soprattutto l’agire sociale, nella democrazia, nell’uguaglianza, nella giustizia, e nel benessere e sicurezza da cui non possono essere in alcun modo allontanati e distratti proprio in quanto giovani, dal momento che questo pluralismo dei valori, è tipico delle moderne e sane società liberal-democratiche. O no?
Secondo la dottrina della necessità, ogni cosa accade ed è necessitata dal verificarsi di condizioni sufficienti per il suo accadere. Quindi perché vi sia una relazione di necessità dire che un evento è sufficiente alla realizzazione di un altro evento, considera in sé  l’affermazione della libertà come opposta alla necessità a cui ci si oppone. Forse proprio perché l’essere umano dovrebbe essere sempre libero di scegliere la propria vita e magari forse anche un suo proprio destino.  Quindi:  
Che bisogno c’era di schedare chi depositava fiori per tributare a Navalny un pietoso saluto? O che bisogno avevano le forze dell’ordine d’identificare un loggionista della Scala di Milano, che fuori dalla retorica risorgimentale inneggiava al patriottismo antifascista?
Domande  più che legittime allora, che alimentano il sospetto che l’azione repressiva e violenta delle forze dell’ordine, possa e debba voler servire ad altri fini, magari proprio quello di “colpirne un manipolo per educare tutti gli altri”.
Ma siccome in questo difficile tempo storico e in Non sono poche circostanze, si ha frequentemente modo di percepirsi sempre come prigionieri rinchiusi in celle da nuovi carcerieri; o di realizzarci come sudditi di regimi dispotici o di autarchie in cui non si è affatto liberi di parlare, votare o di associarsi  in partiti politici, finanche di scegliere di manifestare il proprio dissenso politico, intellettuale  o culturale, senza altresì rischiare di compromettere la propria vita, incolumità, sicurezza o benessere.
Se ci diciamo di essere contro le dittature, alla stessa stregua dovremmo per  saperlo essere anche contro le Democrature, cioè contro quei regimi politici improntati alle regole formali della democrazia, e svuotate sostanzialmente di significato, specificatamente in termini di diritti e libertà. Perché nei comportamenti ispirati all’autoritarismo, nei quali convivono elementi democratici e autoritari, è piuttosto facile ritrovarsi perfettamente dentro un modello di “democrazia ristretta” o in altri termini in  “dittature costituzionali”.
Quando la repressione diventa l’unica risposta del potere, e nella repressione dei governi c’è l’assenza di alternative, il punto fragile diventano TUTTI:  uomini, donne, studenti, dissidenti, movimenti e finanche le organizzazioni partitiche. Allora invece rappresentare la verità come banalmente inconcludente, è facile trasformare gli attivisti in temibili antagonisti, e invece di riflettere prima che gli eventi agiscono in modo selettivo, fazioso o ancor peggio strumentale, s’intercettano gli altri fini ed il gioco è fatto.
Stavolta ancora una volta, è il volto del protagonismo studentesco che si tenta di imbrigliare e di strappare alla protesta, per affermare di contro un abuso del diritto da parte dello Stato, un abuso coercitivo e violento contro una forma di disobbedienza civile.
In viso a generazioni di giovani studenti e studentesse, ai quali nei fatti di quella circostanza è stata profilata insicurezza e pericolo, proprio durante la manifestazione in difesa delle loro idee; per brandire guarda caso, i manganelli come strumento di una battaglia da assumere simbolicamente più che come ribellione sociale come ribellione ideologica e politica.
Dalla lezione di Kant abbiamo imparato che la libertà è molto più che un postulato, il filosofo ha mostrato che partendo dal dovere si arriva alla libertà: tu devi, dunque puoi, cioè sei libero. Questo dovere è quasi una necessità naturale, non è qualcosa banalmente legato alla sfera morale. Ma davanti al dovere morale l’uomo si scopre libero, quindi  tutti gli uomini devono in ragione di ci , anche saper dire la verità e non mentire.
Infatti se la libertà è il fondamento stesso dell’agire morale, la condizione per cui si mette in atto un comportamento morale, anche davanti alle leggi della natura, spinge l’uomo a sentirsi determinato come un fenomeno tra i fenomeni, impossibilitato a sfuggire al determinismo.
In fondo è già accaduto, accade e continuerà ad accadere, fin tanto che smetteremo di essere vigili e sapremo mostrarci perfettamente indifferenti:   “L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.” (…) L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.” Gramsci consideravagli indifferenti eterni innocenti  convinto che non ci fosse “nessuno  che potesse stare alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano.”
Quindi a diverse latitudini geografiche sono ancora in troppi ad non volere riconoscere certe limitazioni e compressioni delle libertà. Sono e saranno uomini e donne ad essere ridotti alla morte civile, all’isolamento, al silenzio, all’ignoranza o alla prigionia: tutti messi a tacere perché percepiti come pericolo di affermazione incontrovertibile alle diverse forme di libertà e dei loro diritti naturali e giuridici. Così sarà sempre più agevole realizzare ogni tipo di modalità persecutoria riproponendola come sempre con la stessa incontrovertibile ferocia e sistematica pianificazione:
 Aleksej Anatol’evič Naval’nyj  vittima sacrificale della colonia penale o lager siberiano dove è morto pochi giorni or sono.  Naval’nyj col suo sorriso in sprezzo, invalso all’oceano di stupidità e ferocia che stringe alla gola l’Europa dagli Urali all’Atlantico, esattamente alla vigilia delle elezioni presidenziali russe del 17 marzo. Dissidente, eretico, cittadino eliminato  in quanto principale oppositore di Putin, l’avversario politico a capo del partito “Russia del Futuro” fondatore della “Fondazione AntiCorruzione e presidente della “Coalizione Democratica”. 
Circostanza per altro già occorsa drammaticamente per numerosi altri dissidenti russi da oltre vent’anni. In troppi, come lui passati per le epurazioni putiniane.
Anna Politkovskaja giornalista russa del giornale indipendente “Novaja Gazeta” eliminata nel 2006 per aver condotto significative opere di denuncia giornalistica contro la violazione dei diritti umani in Russia e in Cecenia, e per aver messo nel mirino le scelte politiche di V. Putin.
Nell’ affaire Assange la carcerazione del fondatore di Wikileaks che in queste ore affronta presso l’Alta Corte del Regno Unito la sua richiesta di appello contro la decisione del governo britannico di estradizione negli Stati Uniti è un’altro caso nella fattispecie:  Assange è accusato negli Stati Uniti di violazione dell’Espionage Act, una legge contro gli atti di spionaggio, e se estradato rischia di essere condannato, sommando tutti i capi di accusa pendenti, a 175 anni di carcere. Colpevole per gli Stati Uniti di spionaggio, cioè per aver diffuso segreti militari e diplomatici, forzando nel 2010  il sistema di sicurezza e per aver divulgato attraverso la sua organizzazione WikiLeaks, verità altrimenti taciute: le violazioni dei diritti umani commesse dagli statunitensi nelle guerre in Iraq e Afghanistan e i dubbi di Washington sui governi di alcuni paesi alleati.
O come la  violazione pressoché costante dei diritti umani e la mancanza totale di elementari forme di democrazia in Iran dove la Repubblica Islamica ha cagionato la morte a Mahsa Amini la ventiduenne, fermata dalla polizia morale a Teheran, perché indossava in maniera non corretta il velo obbligatorio; la cui notizia divulgata da una giovane giornalista, Niloofar Hamedi; e il cui funerale raccontato da Elaheh Mohammadi sono costate ad entrambe gli arresti.
Circostanze che hanno determinato migliaia di raduni improvvisati di protesta in strade e piazze, dove da oltre due anni, dilagano nelle università, nelle scuole da nord a sud dei paesi, e giovani donne hanno bruciato i loro veli in raduni festosi, alcune hanno tagliato i capelli in segno di lutto. Proteste  che hanno raggiunto villaggi e città periferiche, coinvolgendo le classi più fragili ed emarginate, in territori tradizionalmente più conservatori e religiosi del continente, aree etniche come il Kurdistan e Baluchistan, da secoli abusati, martoriati e colonizzati.
Manifestazioni e scioperi a cui partecipano malgrado il pesante clima di illiberalità uomini e donne che paralizzano intere città, nonostante centinaia di arresti preventivi, licenziamenti di docenti universitari e insegnanti più critici; minacce alle famiglie delle vittime, e obbligo per gli attivisti di prendere l’impegno di non partecipare a manifestazioni.
Manifestazioni e Manifestanti che malgrado sempre l’alto grado di violenza istituzionalizzata, sono stati comunque in grado di generare qualcosa: un pensiero libero e divergente, innescare una protesta, una manifestazione, come è stato per il meritorio movimento “Donna, Vita, Libertà” guidato dalle donne -prima volta in un paese islamico-  che ha avuto in animo di sfidare le norme tradizionali, religiose, discriminatorie e autoritarie.
Poco importa se i manifestanti non sono ispirati da specifiche ideologie libertarie o sono privi di leadership famose e attrattive, conta che abbiano messo in discussione l’ordine pubblico e le loro stesse vite, per abbattere le tradizionali istituzioni ereditarie e religiose, per determinare rivendicazioni semplici ma sorprendentemente potenti: è il respiro profondo della Libertà carico di significati.
In fin dei conti in un non certo difficile  sforzo immaginativo, l’importanza di queste manifestazioni di protesta indipendentemente dalla latitudine geografica, tutti si ritrovano uniti  nello stesso identico sforzo: affermare tutta d’un fiato, che la libertà di dissentire e agire si trova sempre sulla strada tortuosa e difficile dei diritti con i quali interagisce.
I diritti alla libertà delle donne, contro la discriminazione di genere di origine etnica e di credo. La libertà di Nalvalny di consegnarsi ai suoi aguzzini. Quella di Assange di rivelare certe verità scomode. Quella dei manifestanti toscani in grado di formulare un esplicito atto d’accusa verso chi Non crede possibile che una popolazione civile bombardata con lo stesso fuoco d’artiglieria di un esercito, sia veramente la vittima inerme che non risparmia i poveri, le donne, i bambini i vecchi e gli ammalati, che purtroppo ancora non hanno ancora imparato ad evaporare e scomparire nel vento se non per effetto di una nuova pulizia etnica.
Allora quando la repressione è l’unica risposta del potere, e nell’affermazione della forza c’è tutta la sua potenza, o quando l’assenza di un’alternativa ragionevole e ponderata, diventa ostentazione della forza a suon di manganello, è più che doveroso e legittimo manifestare e decidere da che parte stare o se voltarsi dall’altra parte per non voler comprendere quando accade e come accade.
La gravità di quegli eventi che agiscono, non è mai meramente riduttiva o banalmente fine a se stessa, ma interpretabile, sempre. Dunque io sto con quegli Studenti e il loro diritto a manifestare. Stop ai manganelli.

PUBBLICATO 27/02/2024  |  © Riproduzione Riservata

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