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In difesa dei dialetti

Foto © Acri In Rete
Angelo Gaccione
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Voglio fare i complimenti al signor Leonardo Marra per questo ottimo scritto. Da anni difendo il dialetto (acrese) che uso regolarmente e parlo.
Spesso ho dimostrato ad amici milanesi, come gran parte delle parole dialettali acresi siano identiche a quelle italiane e come altrettanto spesso a variare è solo una desinenza.
Esempio: gallu (gallo), che poi non è altro che il latino gallus da cui è stata espunta la desinenza. Senza i dialetti (le lingue madri primigenie), le lingue nazionali semplicemente non esisterebbero.
Senza la conoscenza dei dialetti, non si conosce nemmeno un briciolo della propria storia, dei propri luoghi, delle proprie tradizioni, della propria cucina. Per questa ragione ho sempre criticato il vezzo piccolo-borghese (e diciamolo pure: cretino), di quanti proibiscono ai loro bambini di usare il dialetto acrese, addirittura vergognandosene.
Non sanno quanto li depaupereranno, di quanta ricchezza li priveranno. Milan Kundera diceva che lui, avendo dovuto espatriare a Parigi per ragioni politiche, e dunque deprivato della sua lingua, sognava in boemo.
Io non posso incazzarmi che in acrese. Per queste stesse ragioni ho criticato, in più di uno scritto e in più di un'occasione, i letterati acresi per avere introdotto, nelle loro composizioni dialettali, formule del dialetto cosentino, quasi che il loro fosse un dialetto subalterno rispetto a quello della città dei Bruzi. Ne ho scritto criticamente qualche anno fa su "Odissea" anche parlando di un libro di poesie di Francesco  Curto, poiché una delle sezioni di quel libro era in lingua dialettale. In quella occasione avevo evidenziato le aporie e le imprecisioni e ribadito perché bisogna essere precisi nella trascrittura e nell'uso dei dittonghi.
Da anni a Milano organizzo e partecipo ad incontri su libri ed autori che si esprimono in lingua dialettale (romanesco, veneto, napoletano, siciliano, ecc.). Proprio meno di due settimane fa ho preso parte alla Libreria Popolare all'incontro sul libro del poeta siciliano Renato Pennisi "Pruvulazzu" (Polvere).
C'erano Franco Manzoni, poeta milanese, i poeti Franco Loi, Oldani, Tiziano Rossi, il saggista torinese Giovanni Tesio del quotidiano "La Stampa", e altri letterati. Io ho parlato ovviamente della lingua nostra, facendo varie comparazioni con quella siciliana dell'area catanese da cui il poeta proveniva.
In una intervista di tanti anni fa allo scrittore Ottiero Ottieri (poi raccolta nel volume "Milano la città e la memoria"), questi si rammaricava di essere "uno scrittore senza dialetto". Non aveva potuto acquisirne uno perché il padre veniva continuamente spostato da un luogo all'altro per ragioni di lavoro.
Non aveva potuto averne uno come Gadda, come Pasolini, come il grande attore napoletano Eduardo De Filippo.
E ne sentiva profondamente la mancanza, la perdita. Mi sono accorto che invece di un breve commento ho scritto quasi un articolo.
Chiedo scusa al giornale, ma il tema mi sta molto a cuore, anche per il mestiere che faccio. Ai due giornalisti (in genere la categoria non brilla per cultura) a cui Marra fa riferimento, nel caso avessero qualche dimestichezza con i libri, consiglio la lettura del "De vulgari eloquentia" di Dante Alighieri.
Ne avrebbero giovamento.

PUBBLICATO 01/07/2017 | © Riproduzione Riservata



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