Le emozioni ferite: curare con le parole


Gaia Bafaro

Non è possibile conoscere il numero dei moti del cuore che sono dentro ciascuno di noi ma per gran parte dei filosofi è nella follia che si muovono i sentimenti e le emozioni, considerate debolezza in confronto alle luci della ragione. Prima della filosofia è stata la psichiatria a servirsi della follia come mezzo di conoscenza dell’esperienza umana approcciandosi, attraverso l’osservazione diretta, al dolore e ella gioia ferita dalle indifferenze, a tal proposito, Eschilo ribadiva che: “non è possibile conoscere senza la sofferenza”.
Alla base del comportamento vi sono le emozioni e l’osservazione dei modi di fare necessita di un’analisi più profonda per cogliere quello che non può sempre essere detto. Le emozioni, infatti, oscillano tra dicibile e indicibile, tra speranza e disperazione. Clemens Brentano diceva che: “La follia è la sorella sfortunata della poesia” poiché entrambe trasmettono emozioni, bisogna sempre leggere al di là di quello che vediamo e sentiamo e cogliere ciò che esiste in sentieri più nascosti. Un ponte tra la solitudine della depressione e dell’angoscia sono le parole. Quando ci si approccia alla sofferenza è necessario il dialogo. Le parole sono creature viventi ma che, come sabbia in una clessidra, sfumano perché sopraffatte dalle azioni che realizziamo, per questo motivo non può esistere uno psichiatra che non utilizzi il linguaggio delle immagini e delle metafore. Nella vita, non dovremmo avere paura del dolore ma di qualcosa di più deleterio persino delle malattie psichiche: l’indifferenza. La tristezza fa parte delle emozioni di penombra, cioè di tutto ciò che di insito e irrazionale esiste in ognuno di noi e la ragione, diceva Kant, non può attraversare il mare in tempesta delle emozioni restandone indifferente. In questo caso e lo esprimeva egregiamente Leopardi, la ragione deve necessariamente trasformarsi in passione. In una delle sue opere, lo Zibaldone, Leopardi analizzando una serie di processi che vanno dalla felicità alla disperazione, sino al suicidio visto come estrema ricerca di una speranza, si avvicina a quegli psichiatri che dimenticano i rigidi insegnamenti americani finalizzati all’allontanamento dalla sofferenza e dal calore umano e va alla perenne ricerca di una speranza nella nostra sofferenza psichica. Per questo motivo, lo psicologo deve tener presente gli insegnamenti umanistici letterari e filosofici e soprattutto fare largo utilizzo dell’intuizione che è una sonda conoscitiva. Kierkegaard lo sapeva bene quando ci parlava della potenza dell’intuizione nell’aneddoto del cervo. La bestiola che colpito dalla pallottola mortale ha l’intuizione. Ma prima di tutto, l’analista deve spogliarsi dell’indifferenza che è da considerarsi il tumore delle vita psichica e utilizzare discorsi apparentemente divaganti poiché quelli razionali non riescono a sfondare i confini della percezione. Oggi è sempre più utilizzata la psichiatria organicistica che costruisce quadri gnoseologici sull’utilizzo della farmaceutica , un vero disastro per la psichiatria. Però, dall’altra parte si erge la psicologia fenomenologica, un tentativo di incontrare il paziente cercando di capire le modalità specifica della sofferenza e relazionandosi al malato e non alla malattia attraverso il dialogo e l’ ascolto. Le parole, infatti, sono armi ma anche farmaci con un potere tale da indurre alla vita o alla morte e i neuropsichiatri dovrebbero parlare di suggestione- suggerimento per guarire, ricordando che la loro categoria non appartiene alla scienza poiché altrimenti dovrebbero oggettificare l’uomo privandolo della sua soggettività. Per tali motivi la psicologia dovrebbe rientrare nel sapere umanistico e non nella medicina che trasforma i pazienti in casi. La psichiatria fenomenologica, invece, rifiuta da subito il farmaco e cura mediante la letteratura e la filosofia ,ritenendo necessario guarire attraverso la parola e l’ascolto, dimenticandosi del tempo che, inevitabilmente, dinnanzi alla sofferenza cresce e rischia di portare a fare diagnosi affrettate. Infine, nel dialogo con una persona sofferente, bisogna che il professionista sia percettivo osservando il volto del paziente e tenendo presente che anche il proprio viso deve essere comunicativo. Fondamentale è l’educarsi ad allargare gli spazi di quella che è la capacità di immedesimazione e ricordare che tutte le conoscenze tecniche e psicanalitiche non sono essenziali se non si permette alla sofferenza di uscire. A tal proposito, Shakespeare recitava: “date parole al vostro dolore altrimenti il vostro cuore si spezza”. |
PUBBLICATO 18/06/2021 | © Riproduzione Riservata

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