Stillicidi


Giuseppe Donato

C’è un dato di fatto al quale non possiamo più sottrarci, più o meno responsabilmente: non sappiamo più raccontarci.
Non sappiamo più farlo perché abbiamo smarrito le parole, non le abbiamo coltivate o non le abbiamo mai avute, per povertà di lessico. Abbiamo rubato le frasi più stilisticamente azzeccate agli autori più noti, le abbiamo prese in prestito senza capirne e carpirne il vero significato, quello più profondo, nascosto, interiorizzato dallo stesso autore prima di comprimerlo in una frase di senso compiuto. Abbiamo commesso lo stesso errore con cui ci macchiavamo la coscienza scolastica in tempi in cui era facile sfuggire alla comprensione del testo perché bastava ripetere a pappagallo la poesiola o la sintesi critica di un testo. Un impegno gravoso al quale sottrarsi facilmente, da pagare a caro prezzo nei cicli scolastici successivi che non tornavano indietro se non per attendere l’arrivo dei nuovi testi presso le librerie che accoglievano orde di studenti sempre più in difficoltà nell’accedere al volume nuovo piuttosto che a quello già collaudato da amici e parenti, prodighi di consigli e riassunti già bell’e pronti per essere trascritti sui quaderni tanto grandi quanto vuoti di contenuti. Con il risultato che oggi si arriva a uccidere per un’incomprensione, per non essere riusciti a farsi conoscere, per essere risultati troppo aggressivi perché troppo pieni di sé, perché vittime prima ancora di diventare carnefici. Si è smarrito il senso della fatica e della conquista, perché si è comodamente preso posto a una tavola già imbandita, apparecchiata da altri in tempi remoti. Si barattano quotidianamente intere porzioni di diritti ritenuti ormai abbondantemente acquisiti e per questo non sentiti, minimamente sudati, convinti che i paladini di turno riporteranno il tutto nell’ordine naturale delle cose, ignari che quest’ordine è già contenuto nei libri di storia e che sarebbe bastato sfogliarli e comprenderne il senso in tempi non sospetti, per non consentire a vinti e vincitori di appropriarsene alla bisogna. Colpevolmente assistiamo in silenzio alle ciclostilate tiritere sfoggiate da figure istituzionali svuotate delle loro prerogative, impercettibili persino davanti all’indomito Papa costretto a muoversi in carrozzella, rimasto il solo a insistere sul sacrosanto bisogno primario di aspirare alla pace prima di ogni altro bene di prima necessità. Morti sulle strade, nei cantieri, nel luogo ritenuto più sicuro, per mano amica, finiscono nello stesso archivio sotto la voce MAI+, buone soltanto ad alimentare le statistiche che un solerte rappresentante dello Stato leggerà in una qualsiasi occasione nella quale magari si metterà a disquisire sull’etnia delle vittime e dei carnefici, adducendo a limitate capacità di comprensione o a genetiche predisposizioni all’anaffettività. E immagino che da lassù Giulia Cecchettin stia sorridendo con le lacrime agli occhi pensando a quanto papà Gino si sia sinora speso per attivare percorsi condivisi famiglia/scuola/istituzioni atti a ricondurre le nuove generazioni all’empatia, al rispetto delle parti, all’educazione sopra ogni cosa. E a quanto possa risultare frustrante cadere, lungo l’accidentato percorso, con questa croce addosso e cercare comunque di rialzarsi per proseguire nel cammino di liberazione dall’incessante stillicidio di donne private della loro vita, perché colpevoli di aver soltanto cercato di affermare la propria volontà nel rifiutare le ossessive richieste di uomini che non sanno più raccontare, raccontarsi, ascoltare il racconto degli altri e si accontentano della distorta immagine di loro stessi che il limitato e limitante mondo virtuale erroneamente gli restituisce sotto forma di like e cuoricini. |
PUBBLICATO 09/04/2025 | © Riproduzione Riservata

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