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Il voto e l'antipolitica.

Adriano Viteritti
Foto © Acri In Rete
La politica, in quanto scienza, ci dice che i referendum, abrogativi, ostruiscono la democrazia. Ed è vero, nel momento in cui si ha la pretesa, o l'illusione, di crederli "pronunciamenti del popolo", ovvero esperimenti di democrazia diretta in democrazie rappresentative. Non è così, altrimenti il quorum non sarebbe al 50% più uno, ma ben più alto. O per lo meno sarebbe un strumento politico diverso.
Ma al di la delle considerazioni tecniche, che non mi competono e che lascio agli scienziati della politica, voglio fare delle considerazioni strettamente politiche, sociali e culturali. E lo faccio ispirandomi e criticando (in senso lato, ovviamente) l'articolo di Mirko De Maldè, "Democrazia, Stato, istituzione".
A parte gli "espletamenti" (o le esplicazioni, se siete puntigliosi), le questioni poste in essere, e chi ne ha più ne metta (siate buoni), cerco di essere breve. Ma in fondo è anche a questo che l'amico De Maldè si riferisce quando parla di "manifestazioni basse da parte dei politici o delle istituzioni" o di altri poteri politici e istituzionali che si intersecano con tutto il resto. A dimostrazione di quei rapporti di dipendenza che, per dirla secondo un grande critico della letteratura, instaurano "rapporti di omologia" tracciando un continuum lineare (a tratti circolare) tra struttura sociale, struttura ideologica e struttura retorico-linguistica. Ma per carità, nemmeno questo è il mio campo, e forse rischio di andare fuori tema.
Non esprimo le mie considerazioni in merito alla legge 40 e alle abrogazioni proposte (o semplicemente legittimate dalla "suprema corte"). Mi limito, in questa sede, ad esprimere la mia contrarietà a certe forme di "fondamentalismi politici" e a certi "bigottismi culturali".
Sappiamo che la legge elettorale, nell'art. 98, dice che "il pubblico ufficiale, l'incaricato di un pubblico servizio, l'esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell'esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all'astensione ..."
La campagna referendaria è stata, come è facile realizzare, una non-campagna: dove si è cercato di mescolare astensionismo politico, ideologico, "coercitivo" e logistico. Bene, è un errore in cui non dobbiamo assolutamente cadere, altrimenti cadiamo nell'inganno.
Faccio un esempio. All'epoca del referendum sul divorzio o l'aborto, l'opposizione della Chiesa Cattolica (e della DC) fu forte e decisa. Vogliamo ora credere che i processi di secolarizzazione e laicizzazione si siano bruscamente fermati? No, ripeto, non cadiamo nell'inganno.
Alcune istituzioni (politiche, culturali e sociali) hanno attuato una strategia di comunicazione, almeno politicamente, scorretta, ma non la dobbiamo confondere o classificare come "forzata", perchè il 2+2 fa quattro, e se l'invito all'astensione è stato accettato sulla base di un rapporto fiduciario, allora lo stesso si può dire dell'invito ad un voto "Si" o ad un voto "No", politicamente attuato da istituzioni altrettanto "potenti" come quelle sociali (partiti, comitati, comunità scientifiche, associazioni, etc.). Per carità, le decisioni sociali sono individuali, è ovvio, ma nel momento in cui diventano politiche, non prescindono da decisioni collettive, da quelle proposte dalle così dette "leadership di opinione".
Non c'è dubbio: la scienza, a questo punto, si ferma. Anzi, rimane ferma. La libertà rimane inespressa. Ma tutto ciò, non è effetto di un atto di fede, religioso o politico che sia. E' effetto, invece, di una indecisione democratica, figlia di motivi ben più ampi e complessi, gravi e scottanti, ed è pane per la sociologia.
Siamo alla solita questione, mai presa sul serio, del tutto nero o del tutto bianco. O la legge 40 o niente. Possiamo ridurre a questo miserevole binomio un dibattito dalla così grande portata scientifica, sociale e anche culturale? Possiamo permetterci, altresì, di dimenticare l'ignoranza di chi, con le buone intenzioni, può non essere riuscito a comprendere appieno la questione?
Di chi è la colpa allora? Del "votate si" o del "non votate"?
Le risposte a queste domande mi sembrano più che scontate, ma non ci si interroga abbastanza in questa direzione, o non lo si fa affatto.
Allora rimaniamo intellettualmente fermi, e la vera causa dello "stop scientifico e liberale" non è che da ricondurre a questo improbabile smacco, proprio per quel concetto di omologia che, senza umiltà, ma per onestà intellettuale, ho tirato fuori all'inizio di quanto ho scritto.
Non possiamo credere che, in una società - quella italiana e paneuropea - sempre meno industrializzata e indirizzata al focus del post-moderno, siamo vittime di disegni - preordinati - politico-ideologici. Se così pensiamo, allora non abbiamo capito nulla, e ci rifermiamo, ancora una volta, intellettualmente, dinnanzi a questioni più attuali: economiche e post-industriali, politiche e private. Ed è così che si alimenta quel circolo vizioso di impotenza pubblica, di cui non siamo vittime, ma mandanti.
Per cui non piangiamoci addosso sulla non riuscita del referendum, sulla conferma della legge 40 o sull'ingerenza delle istituzioni e della Chiesa cattolica che tanto ci ha infastiditi. Ma riflettiamo sul senso delle cose, sul senso dello strumento politico a noi, apparentemente, più efficace: il voto.
Riflettiamo e poniamolo in relazione ad un strumento, meno apparentemente, più efficace: il non voto.
Il non voto, non è "diseducazione", ma uno strumento politico forte e legittimo (poiché il diritto al voto esiste nel momento in cui viene ad esistere il diritto al non voto). Uno strumento, dicevo, tra i tantissimi di cui disponiamo, ma di cui non ci curiamo, credendoci cittadini solo quando "ci chiamano" alle urne.

PUBBLICATO 15/6/2005

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