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Giuseppe Antonio Arena. La rivolta di un abate Francesco Longano

Foto © Acri In Rete
Vincenzo Rizzuto
Nel 1971 Arena, dopo avere pubblicato l’anno precedente “Introduzione allo studio di Francesco Longano, Liguori Editore, Napoli”, ritorna sull’argomento e pubblica per i medesimi tipi “La rivolta di un abate Francesco Longano”.
Un corposo lavoro, quest’ultimo, di oltre 200 pagine in cui Arena forse dà il meglio di se stesso, dimostrando una matura e organica conoscenza critica di tutto ciò che il pensiero meridionale ha prodotto dal ‘500 al ‘700; un lavoro di ricerca indefessa delle fonti tra archivi e biblioteche di mezza Europa con il solito accanimento certosino, di cui abbiamo avuto già modo di parlare nel primo intervento su Arena intorno al Palmieri.
Questo secondo lavoro è non solo originale ma criticamente costruito: ogni tesi sostenuta è messa a confronto e giustificata con il ricorso puntuale ai testi; un lavoro davvero pregevole e fondamentale, che dà al lettore un quadro esaustivo di tutta l’opera del Longano, colto nel suo tempo attraverso le infinite vicissitudini che hanno stigmatizzato l’avventura dell’abate molisano nell’ambito della cultura napoletana.
Francesco Longano nacque nel 1728 a Ripolimolisani da famiglia molto modesta, il padre e la madre facevano infatti i rigattieri di stoppa e stracci. Francesco pertanto visse quasi sempre una vita di stenti, eccetto in alcuni periodi in cui riuscì a procurarsi qualche guadagno più consistente, come nel 1760, quando il suo amico Antonio Genovesi lo fece nominare al suo posto sulla cattedra di commercio nell’università di Napoli. L’incarico però terminò alla morte dell’amico medesimo, avvenuta nel 1769.
Nel 1767 pubblica il primo volume dell’opera: “Dell’uomo naturale, trattato dell’abate Francesco Longano”. Lo scritto, pur condiviso dall’autorevole amico Genovesi, da subito verrà avversato dal clero napoletano ma anche negli ambienti fiorentini sulla rivista “Novelle letterarie”, diretta da Giovanni Lami che lo taccia di epicureismo e perciò degno di biasimo.
A Napoli in particolare avrà come accusatore padre Tommaso Maria Mamachi, già irriducibile avversario del Genovesi e di tutta la cultura illuministica; quest’ultimo gli si scaglierà contro con particolare astio, specialmente perché il Longano nell’opera aveva scritto contro il celibato del clero e contro ogni forma di arricchimento di esso. Ma il contrasto con la Chiesa non fu solo questo: nel 1778, mentre lavorava alla “Raccolta di saggi economici”, venne invitato da un ricco libraio di Vienna a comporre un trattato “Sull’esistenza del Purgatorio, limitato ai lumi della ragione”, con lo scopo di contrastare una falsa dottrina diffusa in alcune zone della Germania. (vedi Archivio di Stato di Napoli, Cappellano Maggiore, Relazioni, 767, f. 101, rip. in Arena, pag.19). Il Longano accetta l’incarico per il prezzo di 300 ducati, e lo porta a compimento in un mese circa. Anche questo lavoro viene censurato perché ritenuto contrario alla ‘sana’ dottrina della Chiesa, ma Il molisano però, senza tenere conto della censura, ne inizia la stampa che viene subito bloccata per ordine del Cappellano Maggiore; questi minaccia addirittura di farlo espellere dal Regno, o quanto meno di togliergli la licenza di impartire lezioni ad allievi; attività, questa, che gli assicurava un certo guadagno con cui tirare avanti. Il Longano, per evitare il peggio, si sottomise, e per smorzare l’astio partì alla volta delle paludi Pontine per conoscerne i vari aspetti di natura fisica ed economica.
Nel 1783 riprenderà a scrivere e pubblicherà in due volumi la “Filosofia dell’uomo”, cui seguirà nel 1786 un terzo volume. In quello stesso anno riuscirà ad ottenere un beneficio della Corte nella diocesi di Muro e acquisterà un cavallo, con cui viaggerà attraverso il Molise per conoscerlo e studiarne i vari aspetti. Su questo viaggio pubblicherà una “Descrizione fisica, economica e politica”, evidenziando lo stato dell’agricoltura, della pastorizia, dell’industria e del commercio, nonché il governo delle università e la perniciosa influenza dei baroni e dei vescovi, che con la loro ingordigia e rapacità affamavano le masse contadine.
Il Longano non si limita però a descrivere solo la grande miseria e il degrado di quella provincia, ma cerca anche di indicare “i modi con che si avrebbero potuto minorare i danni già notati tanto nella parte economica quanto nella politica.” (Rip. in Arena, pag. 21).
Il Longano, che ci presenta Arena, non è solo l’intellettuale illuminista che studia il suo tempo nel chiuso di una comoda stanza in compagnia dei suoi libri, ma uno spirito inquieto, irriducibilmente nemico del baronaggio e del clero corrotto del suo tempo; e i baroni e la Chiesa lo ricambiarono con persecuzioni e disprezzo, fino ad indicarlo al pubblico ludibrio con appellativi virulenti di ogni tipo: ‘uomo di stoppa, vestito di cenci, maleodorante ’. Il figlio di rigattieri, però, fino alla fine dei suoi giorni non si farà intimidire e, dopo brevi periodi di silenzio, riapparirà sempre sulla scena ancora più deciso e ostinato avversario dello strapotere e della corruzione delle classi dominanti del suo tempo.
Nel 1778, avuta la badia di San Pietro in Campis nel contado di Roccasecca, facente parte della diocesi di Aquino, che gli procurerà una rendita di circa 100 ducati all’anno, invece di godersela comodamente seduto, si metterà nuovamente a viaggiare, e nel 1790 si recherà in Puglia e pubblicherà: “Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata”, (Napoli, Domenico Sangiacomo, 1779, rip. in Arena, pag. 22).
Nel 1791 visita la provincia di Bari, e pubblica: “Philosophia rationalis”, una specie di sintesi di tutto il suo pensiero, destinata agli allievi del Seminario di Larino, il cui rettore era Francesco Brencola; questi, invece di accogliere benevolmente l’opera, la rifiuterà velenosamente non condividendone il contenuto, giudicandolo offensivo del clero e dei metodi di insegnamento, definiti dal Longano coercitivi e arretrati.
Ancora una volta l’uomo ‘di stoppa’ era entrato in rotta di collisione con la Chiesa dei vescovi e dei frati, che per bocca del medesimo rettore Brencola lo accusavano di essere seguace di Epicuro, di Lucrezio e di autori non in odore di santità, come Bayle e La Mettrie. Questo astio e odio continuerà per qualche tempo anche dopo la morte del Longano, e le sue opere, come afferma Arena, verranno quasi del tutto dimenticate fino ai nostri giorni; e non si parlerà più neanche della città ideale, da lui immaginata e “situata nel centro di una dilettosa pianura, col nome di Filopoli, sulla sommità del monte Matese”, come afferma Francesco Gianpaolo quando parla di un’opera del Longano, andata perduta, dal titolo: “Congetture sopra le maniere onde gli antichi popoli del Sannio cotanto prosperarono”. (vedi Arena, pag. 23)
Per quest’oblio, Arena lamenta la mancanza di interesse da parte degli studiosi, compreso il Croce che, nella “ Storia del regno di Napoli” ma anche nella “Bibliografia vichiana”, sostanzialmente dà un giudizio riduttivo dell’opera del Longano, forse per la poca conoscenza che ne ebbe e per l’altrettanto poca attenzione che si ebbe verso l’illuminismo napoletano e, in generale, in clima idealistico. D’altra parte, anche in anni più recenti, ribadisce Arena, con gli studi di F. venturi: “Riformatori napoletani”, si vedrà in Longano solo un “radicale utilitarismo’, laddove Arena nota invece un ben più largo respiro di una ‘visione integrale e umanistica del mondo… con una più ampia apertura verso le idee cosmopolitiche e utopistiche dell’illuminismo europeo più avanzato, una più avvertita esigenza di rinnovamento sociale e politico.” (In Arena, cit. pag.27). Ma in Longano è pure presente una forte attenzione, continua Arena, “alle iniziative e ai processi mossi dal basso, pur restando ancora legato all’assolutismo illuminato” (Arena, cit., pag. 27).
Da qui alcune posizioni chiare del molisano quando propone riforme radicali: “La proprietà delle terre si dovrebbe a chi le può far ben valere non già a sfaticati e agli alunni dell’accidia.” (Longano cit. pag.219, in Arena, pag. 32). E ancora: “Tutto è di tutti. Onde è da reputarsi nemico della spezie chi esclude gli altri dall’uso delle cose create. La proprietà dei beni è figlia dei patti, non già della natura”. (F. Longano, Filosofia dell’uomo, parte I, vol. II, pag.77, in Arena pag. 119).
Il Matese, ai tempi del Longano, si presentava come una delle zone più arretrate del regno, afferma Arena, c’era una nobiltà parassitaria che insieme al clero aveva in mano la grande proprietà; anche il commercio era ostacolato da strade impervie e da assurdi pedaggi così come è descritto da G. M. Galanti, e ancora di più dal Longano nel suo: “Viaggio per lo contado di Molise”. Ad aggravare il quadro disastroso si aggiungeva il fatto che anche le leggi non erano chiare e venivano applicate in vario modo con abuso dei giudici che avevano ‘potere creativo’, il che rendeva la giustizia non più tale come afferma il Galanti, che anche per questo preferisce lo Stato assoluto senza divisione dei poteri.
Altre figure importanti della cultura molisana, prese in esame da Arena, sono l’abate B. Tata, celebre naturalista e biologo e Francesco de Attellis, oltre che Monsignor L. M. de Luca, concittadino e concorrente di Longano alla cattedra di commercio e di etica, nonché precettore di Gaetano Filangieri, futuro autore de “La scienza della legislazione”.
Al de Attellis Arena dedicherà un approfondito saggio: “Francesco de Attellis e le antichità italiche, Roma, 1974. Di lui apprendiamo che giovanis-simo si dedicherà alla carriera forense, che presto abbandonerà per inte-ressarsi allo studio delle lettere e pubblicherà l’opera principale: “Principi della civilizzazione dei selvaggi d’Italia” (1805-1807); un’opera che riveste particolare importanza “perché s’inquadra in quella corrente di pensiero che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento reagisce al mito illuministico…, rivalutando la tradizione e il sentimento di fronte alla ragio-ne, e interpretando la realtà nella sua dimensione storica” (Arena, La rivolta di un abate…, pag. 46).
E ancora del de Attellis Arena ci anticipa che questi, pur colpito insieme alla sua famiglia da gravi disgrazie, con generosità nasconderà nella sua casa, per circa due anni, in momenti difficili e pericolosi, Giuseppe Maria Galanti, ricercato dalla polizia borbonica. Apprendiamo ancora che fu avversario dei Francesi ma ne condivise l’istituto del divorzio.
Ritornando ora al Longano, per quanto riguarda la sua concezione dell’individuo e della società, Arena ritiene che il punto di partenza del molisano è quello individualistico perché per lui l’uomo agisce spinto dal proprio utile; e che, mentre gli altri illuministi, fedeli all’assolutismo regio, riducono il contratto sociale ad un factum subiectionis e riconoscono l’intervento divino per legittimare il potere del sovrano, il Longano va oltre le teorie giusnaturalistiche. Per lui l’individuo non è quello hobbesiano, spinto solo dall’utilitarismo, né quello groziano mosso da astratto ‘appetitus societatis’, né l’uomo naturale di Rousseau chiuso nel suo isolamento, “bensì l’uomo concreto, composto di spirito e di corpo, con i suoi bisogni naturali e le sue aspirazioni ideali che sono quelli degli altri uomini… L’uomo non è al di fuori della natura, ma ne è una parte integrante, la parte più elevata capace di trasformare la natura stessa e di stabilire le leggi.” (Arena, cit., pag. 66).
E lo stesso Longano precisa: “Perocché l’uomo è il solo, il quale sulle ali della propria ragione, non solamente comprende la sua natura e quella dei corpi che il circondano, ma s’innalza ben anche a determinare le tante leggi, per le quali il tutto costantissimamente si conserva armonico e ordinato.” (F. Longano, Filosofia dell’uomo, cit., parte I, vol. I, pag.1, in Arena, cit., pag. 67).
L’uomo quindi ha una funzione ordinatrice sulla terra, e questa funzione la porta a compimento insieme a tutti gli altri uomini nella società di cui è membro. Per lui non esiste individuo senza società e società senza individuo; e nello Stato gli uomini trovano la loro difesa e protezione.
Il contratto sociale dunque, nota Arena, per il Longano non è una ‘conventio’ ma un ‘unio, una contractatio’.
Dopo queste considerazioni, Arena ritiene che Longano se da una parte si distacca dalla pura concezione individualistica dell’uomo, dall’altra rimane ancorato alla mentalità del suo tempo, alla concezione di un uomo non integrale, non storico e sociale, perché non ha rinunciato del tutto all’idea di una ragione razionalisticamente intesa, che fa dell’individuo una macchina. Se da una parte il Longano è rimasto in questi limiti, per molti altri aspetti porta avanti concezioni democratiche abbastanza avanzate: vedi nel campo dell’istruzione e dell’educazione.
In quest’ambito, negli scritti già citati, “Viaggio per lo contado di Molise” e “Viaggio per la Capitanata”, sulle orme del suo maestro Genovesi, sostiene che per il miglioramento delle miserabili condizioni delle masse contadine è necessario e urgente promuovere l’istruzione della gioventù abbandonata a se stessa. Solo così poteva essere rilanciata l’agricoltura e ogni altra attività. Ma accanto alle scuole professionali, riteneva che bisognava promuovere anche gli studi superiori al fine di formare la futura classe dirigente, indispensabile all’esercizio delle professioni e alla gestione delle cariche pubbliche, fino ad allora lasciate nelle mani di una nobiltà parassitaria e ignorante, che affamava i contadini lasciandoli vittime dei pregiudizi e del fatalismo.
Per il Longano, tuttavia, questa vasta opera di formazione e di riscatto delle masse rurali poteva essere portata avanti dalla Chiesa solo attraverso parroci e vescovi illuminati, nominati dal basso in base alle loro qualità morali e intellettuali, e non provenienti dalla feudalità ignorante come avveniva allora. La Chiesa, infatti per lui, ha il compito di promuovere il riscatto dei più poveri e miserabili.
Il Longano, messo in luce da Arena, porta avanti un’idea di religione il cui culto va oltre quello del rapporto interiore con Dio, perché si esplica anche come religione dell’uomo e del cittadino, che deve essere libero di abbracciare qualsiasi fede attraverso un rapporto diretto con il divino; da qui la sua particolare attenzione verso la tolleranza: “La tolleranza, questa sacra parola, che anche ai dì nostri si teme di profferire, è ne’ cuori di tutti gli uomini onesti. I popoli da giorno in giorno mostrano di rischiararsi, e verrà tempo, in cui si arrossiranno d’aver interdetto nonché l’effetto, ma financo il suono di questa sacra parola. Essa forma il fondamento della morale e la base della vera religione. La tolleranza formò lo spirito della religione stessa di Gesucristo. E pure, ch’il crederebbe! Quando io mi richiamo alla memoria le tanti stragi causate dall’odio teologico, io rimango disanimato.” (F. Longano, Dell’uomo naturale, p. II, vol. I, pag. 245, in Arena, cit. pag.74).
Questo breve passo fa di Longano, ci permettiamo di aggiungere noi, un continuatore diretto dei grandi naturalisti meridionali come Giordano Bruno e Tommaso Campanella che, prima di lui, hanno pagato, con il rogo il primo e con 27 anni di carcere e torture bestiali il secondo, il prezzo della medesima idea di tolleranza e di libertà da loro sposata.
E Longano, in nome della libertà, non condivide neppure il concetto della predestinazione e della grazia divina, cui sostituisce l’autonomia spirituale e il libero arbitrio; per lui il rapporto tra Dio e l’uomo è personale, diretto, e può realizzarsi anche senza la mediazione della Chiesa.
Tutta questa sensibilità per l’autonomia dell’uomo poggia sull’assunto secondo cui esisti se sei libero, assunto chiaramente esplicitato quando asserisce: “…il dimandare se io sono libero, è lo stesso che dimandare se io esisto: dimandare se io esisto, è lo stesso che ricercare se io sono o no un essere intelligente. Ma come si può dubitare ch’io sia intelligente nell’atto ch’io richieggo se sono o no libero?” (F. Longano, Filosofia dell’uomo, cit., parte I, vol. II, pag. 209-210, in Arena, cit., pag.111).
E la libertà, che è alla base della dignità e uguaglianza fra gli uomini, è rincorsa non solo dal Longano ma anche da Pagano, Di Blasi e Briganti che afferma: “Sunt igitur omnes homines inter se aequales.” (F. M. Briganti, Esame analitico del sistema legale, Stamperia Rimondiana, Napoli, 1777, pag. 234, in Arena, cit., pag. 86).
Arena però mette in guardia il lettore affinché non incorra nell’errore di considerare tutti gli illuministi napoletani, compresi il Genovesi, il Palmieri, il Grimaldi e il Briganti come pensatori del radicalismo, che anticipano la Rivoluzione, così come tende a fare L. Firpo in “Rousseau in Italia”, (cit., pag. 29-30, in Arena, cit., pag. 87). Per Arena invece il Briganti e il Palmieri rifiutano la concezione dell’uguaglianza naturale del Rousseau e si avvicinano a quella di Hobbes, anche per quanto riguarda l’abolizione della proprietà privata, che essi vedono ancora come antistorica e utopistica.
Il Longano, precisa ancora Arena: “proveniente da una delle provincie più misere e arretrate del Regno, apre la sua mente alle nuove idee radicali e rivoluzionarie. Egli è uno dei primi, nonché dei pochi rappresentanti della cultura illuministica napoletana nella seconda metà del Settecento, a dichiararsi apertamente a favore della dottrina rousseauiana.”(cit., pag. 90).
E in questa indagine Arena mette anche in evidenza che il Longano non cade nella generica affermazione di un concetto di libertà e uguaglianza, che nell’illuminismo francese diventano in assoluto contrastanti perché si limitano tra loro: se la libertà, infatti, è totale, essa porta inevitabilmente a grandi diseguaglianze economiche, sociali e quindi politiche, così come ha notato anche il Goldman in: “L’illuminismo e la società moderna,” (cit., pag. 51, in Arena, cit., pag. 92.)
In Longano, continua Arena, è presente “la consapevolezza storica dovuta soprattutto all’influenza del Vico”, consapevolezza che lo porta a riconos-cere, comunque, ad ogni uomo il diritto alla libertà e all’uguaglianza, valori compatibili anche con la proprietà privata purché contenuta entro certi limiti, considerato anche il fatto che l’ideale sociale di Longano è visto in una comunità formata di piccoli produttori indipendenti, favoriti e tutelati dall’autorità statale, espressione della volontà generale.
Certo Arena, pur entusiasmandosi di fronte all’opera dell’uomo di ‘stoppa’, che sotto certi aspetti incarna l’ideale dell’intellettuale perennemente insoddisfatto e in contrasto con l’esistente, quale anche il medesimo Arena sempre fu, non manca, da studioso di razza, di far notare le inevitabili contraddizioni pure presenti nel suo personaggio preferito, annotando che
Il pensatore di Ripolimosani, infatti, se dapprima, nell’opera “Dell’uomo naturale” sposa concezioni di radicalismo diffuso, più tardi, nel “De jure naturae umanae” mitiga il radicalismo con l’idea di un’uguaglianza che varia con le differenze tra le qualità fisiche e morali esistenti tra gli individui, nonché con l’influenza addirittura del clima, fattori che secondo lui determinano inevitabilmente diseguaglianze sociali.
Ma, nonostante tutto, il vasto lavoro di scavo di Arena, alla fine, ci consegna un Longano intellettuale originalissimo e antesignano di nuove sensibilità, che trovano, fra l’altro, solide fondamenta nella martellante insistenza con cui l’uomo ‘di stoppa’ sente la necessità di discutere e ridiscutere sull’idea di libertà, in nome della quale da abate rifiuterà finanche il dogma del peccato originale: “Concludo, essere l’uomo naturalmente libero, mentre tra eguali tutto è uguale. La distesa maggiore o minore delle forze non altera punto i diritti primitivi. La libertà naturale d’un Giannizzero è come quella del suo gran Signore: e quella dell’indiano è uguale a quella del suo Cacicco. I titoli maestosi del gran Mogol, di gran Cam e di gran Signore sono geroglifici ignoti alla natura umana…” (F. Longano, Dell’uomo naturale, cit., pag. 247, in Arena, cit., pag. 112).

PUBBLICATO 17/10/2018





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