Danilo Guido meets Leon Pantarei
Angelo Vaccaro
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Ho ascoltato questo capolavoro di bellezza ritmica e melodica lontano da casa e lontano dai clamori della città, mentre percorrevo in solitaria uno dei miei sentieri nella Timpa dei Dedideri.
Ascoltando i primi tre brani mi sono sentito un viaggiatore ai confini del mondo, ho visto i grandi biomi terrestri, ho attraversato il Sahara con una carovana di tuareg e ho danzato nelle praterie con i nativi americani, ho visto il mondo dalle cime della Ande seguendo il volo dei condor verso Machu Picchu. Le percussioni ora lievi ora incalzanti si confondevano con le forze della natura come il vento, le acque impetuose o le misteriose voci delle montagne e delle foreste,e si intrecciavano con le struggenti melodie dei fiati, in un crescendo di prodigi sonori che mi portavano in mondi perduti e ogni volta ritrovati dal potete della fantasia. E fiati e percussioni si inseguono, si abbracciano, si snodano come onde che vengono dagli abissi per accarezzare alla fine con dolcezza la sabbia delle rive. E chiudendo gli occhi, nei brani che seguono, ci si può sedere a bere acquavite di datteri in un caffè di Casablanca, ad ammirare con emozione una ballerina nella danza del ventre in un locale di Istanbul, o fumare in un bivacco di pastori armeni guardando le stelle. Brani di grande suggestione ove esecuzione e ascolto sono l’interfaccia della stessa antica e universale emozione della bellezza. E pur muovendosi nell’alveo della tradizione artistica di Danilo Guido, ormai debordano dai confini del genere, vanno oltre i canoni del jazz, evidenziano una mutazione artistica e antropologica, creano nuove vie che si snodano in atmosfere indefinite. Da profano della musica nella sua struttura epistemologica, ma da sognatore e amante attento dell’ascolto, penso che l’autore attraverso il meraviglioso sodalizio con il grande percussionista Leon Vulpitta Pantarei, si muove in uno snodo creativo destinato presto a stupirci. Grazie. |
PUBBLICATO 29/05/2020 | © Riproduzione Riservata

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