L'eccellenza che uccide
            
				  Franco Bifano
					
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                         Si è chiusa nel bagno dell’Università IULM di Milano  e ha scritto un biglietto con il quale ha chiesto scusa per i suoi fallimenti. Si è avvolta la sciarpa intorno al collo e si è impiccata. Aveva solo 19 anni.  
                      Quale fallimento grava sulle spalle di una ragazza così giovane da spingerla a farla finita? Non riesco a immaginarne nemmeno uno. A questa età la parola fallimento non dovrebbe essere neanche contemplata, soprattutto se riferita al percorso di studi intrapreso. Qualche esame andato male, la difficolta a reggere i ritmi della vita universitaria, persino il non riuscire a laurearsi non sono certo da considerare un fallimento. Ognuno dovrebbe avere la possibilità di seguire le proprie attitudini, anche se non prevedono un percorso universitario. Il problema è che questo modello di eccellenza “spinto”, al quale questa società tende sempre di più, non fa sconti. Si corre perciò il rischio che si trasformi in un pesante carico di aspettative che, prima o poi, finisce per schiacciare gli studenti. Non è un caso se un gesto così estremo – purtroppo non è il primo - è avvenuto all’interno di un’Università. Evidentemente c’è qualcosa di perverso in questo sistema che sfibra e logora i ragazzi nel profondo. Sarebbe auspicabile che gli Atenei si interrogassero su questo. Del resto, non possono limitarsi a essere un luogo di formazione e di preparazione al lavoro, a prescindere. L’Università come comunità aperta, deve favorire il confronto, l’aggregazione e la crescita personale. Diversamente si corre il rischio di un avvilimento degli studenti. Un meccanismo diabolico questo che può trasformarsi nel primo passo di un percorso infelice che, una volta intrapreso, può portare a conseguenze devastanti. Il silenzio e la tendenza a isolarsi sono segnali che non andrebbero mai sottovalutati, perché sono, troppo spesso, propedeutici della depressione. Quasi sempre i ragazzi prima di sprofondare in questo abisso mandano questi o altri segnali. Il guaio è che noi adulti, completamente assorbiti da questa società frenetica (quando non dai social) non siamo in grado, o non abbiamo il tempo, di intercettarli. Quando ci riusciamo, facciamo poi fatica a decodificarli. Si crea così una sorta di corto circuito nel quale il disperato grido di aiuto lanciato si perde nel vuoto. Quello stesso terribile vuoto che rischia di avvolgere e stritolar i ragazzi che non trovano ascolto, comprensione e aiuto.  | 
                    
PUBBLICATO 04/02/2023 | © Riproduzione Riservata
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