Vita, pensieri e stagioni


Manuel Francesco Arena

I primi freddi sono arrivati con ottobre. Scendiamo con mio padre per una camminata pomeridiana tra le vecchie case della contrada che purtroppo sanno di vuoto ed abbandono. Eppure ogni muro racconta storie antiche come il vento se ti presti ad ascoltarle. Sopra una icona ricavata su un’abitazione, un quadro di Sant’Antonio guarda bonario la stretta viuzza dove un tempo passavano uomini ed asini. Ormai quasi più nessuno passa da lì per offrire a quell’effige sbiadita raffigurante il Santo padovano un’effimera compagnia che dura anche solo due passi. Scendendo più giù, oltre le tre fontane di cui due ancora scorrono discretamente mentre l’altra è in secca da tempo, si apre la vasta campagna dove camminando fra sterpaglie secche e superando cancelli chiusi precariamente con del ferro filato, appare la stradina che porta al fiume. Dov’è finita la sua dignità di un tempo, mi chiedo? Il Duglia, ovvero il fiume che da il nome alla frazione, oggi è solo un rigagnolo che si fa faticosamente spazio tra le rocce e la sabbia. Eppure d’inverno a volte sa ancora arrabbiarsi esso! Quando fa lunghe giornate di pioggia, muggisce come una volta portandosi dietro tutto ciò che trova sul suo cammino. Ma oggi non è il caso. Non piove seriamente oramai da mesi. Non è difficile quindi per noi guadarlo su pietroni emersi. Giungiamo in una grande valle detta semplicemente “ ‘i macchi” mentre di fronte a noi, svettano sulla collina le case della frazione che si specchiano sulla strada che porta verso il mare e quindi verso il mondo grande. Penso che in fondo siamo tutti parte di questo suddetto mondo e difficilmente possiamo estraniarcene pur volendolo certe volte. Che siamo in una grossa metropoli o nascosti in una valle adombrata dove specie d’inverno persino i raggi del sole fanno fatica a farsi spazio, tutti subiamo ciò che accade attorno a noi nel bene e nel male. Mentre siamo lì, in quel luogo dove gli unici rumori sono abbai lontani di randagi e canti armoniosi di uccellini, in altre parti della terra imperversa un’immane sofferenza per colpa delle guerre. In quei luoghi i merli hanno smesso di cantare e la vita di seguire il suo normale corso: dove cadono le bombe in fondo non può palesarsi la minima immagine del futuro.
Raggiungiamo una grossa pianta di noce ultracentenaria caduta per malattia. È secca, dal tronco grigio. Eppure sebbene a terra morta, non ha perso la sua dignità di grande vecchia. Oltre stanno le terre di famiglia. C’è quella di mio padre, dei suoi fratelli e dei suoi cugini. Solo fino a poco più di un decennio fa, erano tutte coltivate e regalavano generosamente i loro frutti. Siccome sono terreni sabbiosi, ricordo, ci venivano soprattutto delle buonissime patate. Purtroppo ora sono invase dai rovi, così come lo è un’antica casetta degli attrezzi dove addirittura è cresciuta pure l’edera. E poi ancora tracce fresche di cinghiali qua e là, i quali sono diventati i nuovi padroni. Le noci ai limiti del fiume invece non hanno frutto. Per loro è stata una cattiva annata. Qualche rara mela però c’è. Sono succose e saporite come dal fruttivendolo ce lo possiamo solo sognare. Magari sono un po' brutte da vedere, ma sinceramente preferisco il sapore alla vista. Ne raccogliamo qualcuna con l’intento di portarle a casa nel frattempo che il sole cala e le ombre iniziano ad allungarsi. Si è fatta ora di andare a casa. Le giornate lunghe dell’estate sono solo un ricordo, ma forse è proprio questo il bello delle stagioni: la transitorietà. Esse sono fatte per passare per poi tornare come le onde del mare mentre noi no. A differenza loro, delle stagioni, siamo solo acqua di fiume che una volta andata, non fa più ritorno al medesimo posto. Anche questo qualcuno dirà che è il bello della vita...
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PUBBLICATO 04/10/2025 | © Riproduzione Riservata

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