Un normale pomeriggio di giugno


Manuel Francesco Arena

Era giunta l’estate. I gigli di San Giovanni erano fioriti nella macchia nel pieno del loro vigore. Con il loro colore arancio avevano tinteggiato il prato ai margini del bosco di castagne. Sigaretta in bocca, barba lunga e passo lento, Ninuzzo risaliva la stradina seguito dal suo cane.
Aveva piovuto a lungo per tutta la giornata, solo a metà pomeriggio era cessato. Tuttavia il cielo era rimasto caliginoso nascondendo il sole. Dall’erba bagnata si alzava una leggera bruma che conferiva al posto un po' di mistero. Nella sua camminata, Ninuzzo aveva trovato tre porcini di castagno freschissimi. Avevano il cappello color nocciola ed un profumo intenso che pervadeva l’aria. Li portava in mano come fossero dei preziosi trofei. Dopotutto non era uscito per andare a funghi, perciò non aveva portato il cesti in vimini che lui stesso aveva intrecciato. Quando era solo un bambino, glielo aveva insegnato il nonno a costruirli. Una volta, nei tempi che ancora la plastica non aveva invaso i mari e la natura, costruire cesti, gerle e panieri vari più che un’arte era una necessità. Erano tempi migliori? Tempi peggiori? Chi lo sa! Tuttavia era un tempo che come ogni tempo, genera il sentimento umano più puro e limpido che esista: la nostalgia. Si era lasciato la prateria con i gigli alle spalle Ninuzzo. Il cane correva davanti felice con la lingua che gli penzolava mentre lui era un po' stanco. Il dolore al ginocchio non gli dava tregua. Infatti c’è da dire che un antico incidente sul lavoro, lo aveva aveva condannato alla zoppia a vita. Tuttavia non si era mai arreso. Aveva continuato a fare i soliti lavoretti di campagna, allevare le galline che in cambio gli regalavano uova ogni giorno ed a fare le consuete camminate pomeridiane per tenersi in salute. Sul colle a qualche chilometro di distanza, baluginavano le prime case del paese. Si ricordò che l’indomani era sabato e doveva recarsi lì per comprare qualcosa, compresi i farmaci ed il pane. Gli seccava andare in paese. Gli seccavano gli occhi addosso di chi lo guardava sarcastico per il suo incedere zoppo, per il suo essere dipinto come “un povero campagnolo” e per tanti altri motivi. Purtroppo volere o volare, almeno una volta alla settimana gli toccava prendere al mattino il pulmino della ditta locale e spostarsi in centro. In fondo non aveva nessuno che poteva delegare al suo posto escluso il cane, cosa logicamente impensabile da fare. Egli era rimasto l’unico abitante di quel posto sperduto che sembrava in testa al mondo: l’ultimo custode di un luogo dove una volta regnavano voci di uomini e donne che lavoravano la terra con armonia e che con il tempo aveva visto impadronirsi il silenzio, gli alberi ed i cinghiali di ciò che le genti avevano abbandonato. Forse era stato così anche dapprincipio e forse lo sarà anche in futuro per sempre: chi comanda e tutto muove in fondo è o non è madre natura? Giunto ad una svolta del sentiero dove sorgeva una fontana, Ninuzzo bevette un po'. L’acqua che sgorgava dalla roccia sembrava dargli nutrimento alle sofferenze ed alla solitudine. Poi con una smorfia si sedette ad un ceppo di una quercia e si asciugò le stille di sudore dalla fronte. Restò lì in pace fino a quasi l’imbrunire cadendo per un po' nelle braccia di Morfeo. Poi si scosse facendosi forza e riprese il cammino verso casa. Aveva da pulire i porcini e da prepararsi la cena. La fame, soprattutto la fame, iniziava a farsi sentire. |
PUBBLICATO 21/06/2025 | © Riproduzione Riservata

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